La memoria come vuoto, come spazio da occupare, come il deambulare dei ricordi che non conoscono tempo. Cronologie che negano se stesse in una soggettività del narrare che non offre il senso dell’accadere (dunque dell’esistere), ma solo la sensazione del tempo che non c’è più.
"Millenium Mambo" anestetizza il senso della storia in un perpetuo progredire della messa in scena come organizzazione dello spazio esistenziale offerto a personaggi che non hanno più uno statuto dell’essere, dispersioni nella biografia negata di corpi che si materializzano come perforazioni di un esistere appartenuto altrove.
Cos’è del resto questa se non una storia d’amore che non appartiene a nessuno, né a Vicky nè a Hao Hao né a Jack, inscritta nel luogo assente del narrare fuori campo della ragazza.
L’ipotesi di un dire che appartiene al già vissuto ma che non per questo appartiene a una storia concreta…
Non ci sono più corpi, ma solo ombre che agiscono ottenebrate da una cronologia che non ricordano neanche più.
Il senso dell’accadere che possiede quei corpi non può essere espresso in una logica funzionale al loro esistere, ma solo in una materializzazione del tempo, unica e assoluta che riconosce solo il proprio scorrere, senza offrire possibilità alcuna alla ragione, dunque ai sentimenti…
Sarà per questo che "Millenium Mambo" appare così distante persino alla nostra memoria, e non solo a quella dei suoi protagonisti.
Hou Hsiao-Hsien occlude il suo film in una spazialità che non conosce area né prospettive ma solo porzioni e frammenti.
Il cineasta taiwanese mette un altro tassello a quel suo percorso introspettivo nella psicologia dell'individuo, della comunicazione interpersonale, nei rapporti tra le ultime generazioni ed il mondo che le circonda, dove i conflitti dell'individuo hanno la predominanza.
Una fotografia nebbiosa e surreale, riprese molto strette ed attente, panoramiche in ambienti cupi e claustrofobici, sono le caratteristiche di questo "Millennium Mambo", un viaggio onirico tra il realismo e la simbologia.
Un incubo surreale che è la rappresentazione del disagio sociale e personale di una ragazza alla ricerca di risposte; uno sguardo cinematografico che non è mai rilassato e che non può che chiudersi con l'aridità di una distesa innevata, simbolo dello status di un mondo giovanile allo sbando.
Quasi a testimoniare di due perdite, quella della memoria e quella, più definitiva, del senso di un'arte che non riesce a trovare una direzione.
Nell'artistico disordine dell'esposizione, come dice il regista stesso; "Vicky è come l'immagine di una foglia cadente che si ferma per l’eternità nel momento stesso in cui noi la guardiamo fissamente con comprensione e tenerezza".
In concorso al Festival di Cannes 2001. |