Purtroppo per Griffith non è possibile scindere la forma dal contenuto.
La visione dei fatti, oltre a quella delle motivazioni, è a dir poco distorta: la Guerra di Secessione è elemento di disturbo nei rapporti tra i rampolli degli Stoneman e dei Cameron. La ‘Nazione’ griffithiana non è il frutto di questa guerra, combattuta da soli bianchi, ma del successivo intervento del Ku Klux Klan contro il nascente black power. È chiaro come prediliga lo scontro razziale a quello civile, è disarmante vedere come lo affronta: buoni contro cattivi, nel più classico degli schemi favolistici a dispetto della veridicità del racconto. Una favola alla fine della quale i buoni – tutto fuorché tali – vincono umiliando i cattivi – un po’ se la cercano, in effetti –, privandoli del diritto di voto nel compiacimento del regista; una favola nella quale una donna bianca piuttosto che rispondere «no grazie» alla proposta di matrimonio di un nero sceglie il suicidio, al quale fa seguito il giusto (!) linciaggio del pretendente.
Non contento, Griffith concede il dono dei sentimenti ai soli bianchi, contrapposti ad una razza animalesca in ogni comportamento, dall’unica prerogativa umana della prepotenza.
Peccato, perché il resto del film è un capolavoro: il continuo alternarsi delle violenze dei neri in città alla cavalcata dei Ku Klux per salvare i bianchi in pericolo affascina ancora oggi, le riprese dall’alto dell’esercito in marcia sono spettacolari; non meno notevole la riuscita delle scene negli interni o in oscurità, con primi piani perfettamente ‘in luce’ in contrasto con gli sfondi. E soprattutto, la prima grande prova di un intero cast – non solo Lillian Gish, sono tutti quanti all’altezza – nella storia del cinema. |