Bisogna vivere senza la risposta, credo.
Sorprende la commedia poco ortodossa di Mike Mills; sorprende perché è impossibile porsi di fronte a una pellicola intitolata Thumbsucker (o peggio ancora, nella traduzione italiana, “Il succhiapollice”) senza perplessità maggiore della curiosità.
Dopo un bellissimo inizio, il problema del pollice emerge in tutta la sua drammaticità: l’ironia non è nella frase, ma nel problema stesso, in virtù del quale Justin sembra la causa dei problemi familiari, di quelli scolastici e della propria incapacità di interazione col prossimo.
L’inizio del film parla semplicemente della difficoltà per un adolescente – ma non solo per lui – di avere fiducia in se stesso, della mancanza di coraggio: niente che esuli dalla normalità. L’incontro col dottor Perry (Keanu Reeves in una parte minuscola, ma che nel finale si fa portatore della non-soluzione) e la sua discutibile ipnosi sembrano risolvere, anzi, risolvono realmente, il ‘problema’ del pollice. Portando finalmente alla luce una verità inevitabile, la superficialità del problema-ciuccio come valvola di sfogo di un subconscio sofferente.
Lo spunto migliore del film è quello che cambia radicalmente Justin, la diagnosi del fantomatico deficit dell’attenzione, una delle invenzioni più inutili se non dannose della paramedicina degli ultimi anni: Justin intravede nella boccetta di pasticche la soluzione ideale, quella esterna, rinunciando ad analizzare il problema.
L’effetto è quello della cocaina, e prima che il ragazzo realizzi di non essere se stesso il suo microcosmo s’è ribaltato, emergono le debolezze altrui, quella del padre e quella di Rebecca – la ragazza di cui s’innamora – su tutte.
Il finale è corretto quanto scontato, Justin rinuncia alla droga ma non torna quello di prima: è stata un’esperienza, è cresciuto. Da ognuna delle due personalità, quella impacciata e quella estroversa, riesce ad estrarre il meglio. Ma soprattutto, dopo mesi in cui ha faticato a prendere atto della presenza di un problema e provato ripetutamente a risolverlo, ha l’illuminazione giusta: il problema non c’è, non c’è mai stato. Non c’è una risposta per la quale struggersi. Accettarlo è la cosa più difficile. |