Sullo sfondo di nubi minacciose scorrono i titoli di testa, quasi a voler avvertire lo spettatore che nella vicenda ancora da svelare si sia già consumato qualcosa di funesto. Il film si apre infatti con un dramma appena compiuto: siamo in Indocina e le risaie di una famiglia francese sono appena state invase dall’acqua marina, a causa di una diga primitiva che non ha retto agli assalti del Pacifico. L’indomita proprietaria terriera, interpretata dall’affidabilissima Isabelle Huppert, è una donna di mezza età con due figli a carico, sostanzialmente povera e molto attaccata ai figli e a quella terra, che ha ricavato da un terreno paludoso. Il fortissimo desiderio di emancipazione dei suoi figli Joseph e Suzanne contrasta con l’incapacità della madre di pensare a una vita senza di loro. La burocrazia disonesta e corrotta e la spietatezza degli industriali locali costringono la famiglia all’esasperazione e a umilianti patteggiamenti.
Quello che non convince di “Un Barrage contre le Pacifique” è prima di tutto l’aspetto puramente tecnico. La fotografia smorta, con i colori della natura che sembrano privati di un soffio vitale e che si mischiano allo spazio e ai rumori senza un filo logico, dovrebbe forse farci riflettere sulla natura della natura, eppure l’unica cosa che provoca è un incredibile distacco emotivo. Ogni scena sembra già vista e girata senza personalità, così come la caratterizzazione dei personaggi collaterali (nulla da dire invece sui tre protagonisti). Il regista cambogiano Rithy Panh, già autore di “La macchina di morte dei Khmer rossi”, fa rivivere l’omonimo romanzo della scrittrice francese Marguerite Duras, di cui il film è la sostanziale trasposizione, ma si dimentica che il romanzo era già stato portato sugli schermi nel 1957, da René Clément e forse era sufficiente così. “Privare le persone di dignità è un errore che si ritorce contro” cita Isabelle Huppert nel film. Ma la frase a effetto non passa e il film rimane statico e sbiadito come il tempo che non passa mai. |