Tra favola e documentario, il film prosegue il discorso intrapreso da Gatlif su questo tema con “Gadjo Dilo–Lo straniero pazzo” (1997).
Tony Gatlif prosegue la sua esplorazione delle culture nomadi, ieri quelle degli tzigani e dei gitani, oggi quella dei manouches.
Qui ci fa da guida una storia d’amore infantile tra un giovanissimo francese di famiglia benestante e Swing, una bambina manouche. Attraverso di lei, durante un’estate, Max scopre la vita e il ritmo dei manouches, la loro storia e i loro canti. Di queste vicende noi ascoltiamo soprattutto una sensualità bagnata dal rumore dei corsi d’acqua, delle rive ombrose lungo le strade perdute.
La cinepresa entra in perfetta armonia col pulsare della natura, poi, ad un certo punto, nel cuore del film, si situa ad un altro livello. Studia il comportamento dell’individuo all’interno del gruppo, spingendosi nei particolari. Canta una comunità fondata sul cambiamento e sull’accordo, solidificata in una musica dove la voce delle donne è rilanciata dal suono di chitarre.
A partire da qui si compie il miracolo di una comunione tra lo spettatore e lo schermo. I tempi del film diventano i nostri, la sua musica ci attraversa e diviene la vera protagonista. Una musica non solitaria ma sempre collettiva, che istituisce continuamente un "sentire comune", e che dà luogo a un mondo dove ogni individuo ha diritto di cittadinanza, dove non c'è differenza d'età, di razza o di sesso.
Presentato al Festival di Berlino 2002. |