Tuvia Bielski - Daniel Craig, in sella ad un cavallo bianco, infonde coraggio a un centinaio di ebrei, infreddoliti in mezzo alla foresta bielorussa nel gelo invernale: la scena, che col suo carico di retorica si rifà non tanto a “Braveheart” quanto ad uno dei suoi derivati più famosi, “Il gladiatore”, segna il passaggio dalla conduzione di un gruppo di profughi al comando di quella che si presenta come “Armata Bielski”; è in questo elemento bellico che la storia (vera) raccontata da Clayton Frohman ed Edward Zwick si differenzia dal resto della sterminata filmografia su nazismo, ebrei e resistenza. L’Armata Bielski è composta da ebrei, in pochi combattono ma rappresentano una novità.
Alla fine della guerra, dopo tre anni passati nei boschi, saranno oltre 1200 gli ebrei che usciranno dalla foresta; tra questi il loro condottiero Tuvia Bielski, novello Mosè, e due suoi fratelli, Zus e Asael (interpretati rispettivamente da Liev Schreiber e Jamie Bell, non avvezzi a questo genere di film, a differenza di Daniel Craig).
“Defiance” non segue per intero gli spostamenti del gruppo, ma si sofferma sul primo, difficile anno: inizia con la morte dei Bielski e la fuga dei loro figli, ne segue i primi istinti di vendetta e la presa di coscienza del loro ruolo all’interno della guerra, la separazione, gli scontri con i soldati e la riconciliazione; l’evoluzione cinematografica dei rapporti tra i personaggi è completa e i due anni successivi non sono interessanti a tal fine (una didascalia è sufficiente).
La realtà filmica di “Defiance” è quella di un film su bande partigiane, un film sulla guerra e sui profughi; lungi dall’essere un film corale, è più una versione recente e trasposta di “Robin Hood”, con un leader che si fa carico di una comunità e ne organizza tanto la sopravvivenza quotidiana quanto l’addestramento militare. Tuvia Bielski non diventa Rambo principalmente perché c’è già suo fratello Zus in quel ruolo, e Daniel Craig si allontana dal suo James Bond senza sconfinare esageratamente nell’eroe/tutto-azione stalloniano; anzi, paradossalmente si sporcava le mani molto di più al servizio di Sua Maestà…
Edward Zwick si conferma, dopo “Blood Diamond”, a proprio agio quando muove la macchina da presa nel mezzo della natura, tra spazi stretti che si aprono a panorami più ampi, nuovi piani che nascono dietro ogni movimento. Il tutto però non riesce a decollare, nelle oltre due ore di durata, ed il rifiuto per ciò che viene mostrato, la sofferenza fisica che provoca, prevale sempre su ogni altro aspetto. |