|
|
In una bidonville di Tokio vive una piccola comunità di matti, senzatetto, uomini e donne che nascondono problemi e connotazioni umane diverse. La signora Okuni-san, suo figlio Rokuchan, due operai sempre ubriachi, il saggio Tamba-san, la 15enne Katsuko, un impiegato e sua moglie ed altri ancora popolano questo stano mondo a sé stante. |
|
|
|
Girando il primo film a colori, Kurosawa riprende scopertamente ambientazione, temi e personaggi del suo “Bassifondi” del 1957. Anche qui, come nel suo antecedente in bianco e nero, sceglie la rappresentazione corale di un mondo che si colloca ai margini della società: una bidonville abitata da simpatici folli, da senzatetto, da uomini e donne soli. Abbandona gli aspetti surreali a favore di una messinscena realistica (riportando non a caso la vicenda nell’attualità); ma non rinuncia alla sua vena più creativamente sognante almeno nell’episodio del barbone e in quello del tranviere immaginario. Ne scaturisce un affresco efficace e variopinto di una comunità di emarginati che vuole però assurgere a specchio dell’intera società: e per questo i mali che la travagliano, abilmente descritti dal regista giapponese, non vanno semplicisticamente intesi come funzionali a una qualche istanza di denuncia sociale, ma piuttosto come segni di un dolore comune a tutti gli uomini. D’altronde le figure, emblematiche, che attraversano le strade fiancheggiate da cumuli grigi di rifiuti (una sorta di affascinante scenografia sui generis) sono assolutamente non collocabili in una qualche definizione di classe: il matto, il vecchio saggio, i padri (o i loro sostituti) oppressivi, vili e violenti, le donne indifferenti o impotenti sono personaggi che ambiscono a una dimensione più grande, forse anche simbolica. Kurosawa si cimenta con il colore e riesce in alcuni casi ad impiegarlo in maniera artistica, ad esempio nella rappresentazione di un cielo ora rosso fuoco, ora cangiante, e che riflette i drammi che si consumano sotto di esso. Ma in generale il regista appare meno ispirato che in altre occasioni: i personaggi sono in generale ben descritti e ottimamente interpretati, ma pare di poter cogliere una certa leziosità ad esempio nella descrizione del giovane “tranviere”. Nel sogno della casa del barbone, forse anche per l’impiego dei colori, Kurosawa rischia di smarrire il buon gusto, e accanto a ottime cose (una su tutte l’incontro tra Katsuko e il garzone di bottega dopo l’accoltellamento, con la bicicletta che esce dall’inquadratura lasciando la ragazza sola davanti al muro) ci sono momenti più deboli. Tale sofferta realizzazione si rifletté all’epoca nel fallimento del film al botteghino, cosa che spinse il regista a tentare il suicidio. “Dodes’ka-den” è il suono onomatopeico che Rokkuchan va ripetendo incessantemente mentre corre per le strade del vicinato imitando il rumore del “suo” tram. |