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Esilarante, commovente, agghiacciante e dolorosa allo stesso tempo: questa è la storia del giovane Truman Capote e della sua indagine sul quadruplo omicidio di una ricca famiglia del Kansas nel 1959. Quella che era cominciata come un'avventura alla ricerca del colpevole, insieme all'amica d'infanzia Harper Lee, si trasforma in qualcosa di inaspettato: un intenso e complesso legame con uno degli assassini, che ha ispirato il suo più grande lavoro ("A sangue freddo") e cambiato indelebilmente la sua vita. |
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La vita è penosa (...) Trasmuto le mie ferite in arte.
Pochi mesi dopo il “Truman Capote – A sangue freddo” di Bennett Miller e Dan Futterman, arriva in sala la versione di Douglas McGrath; purtroppo per quest’ultima, nonostante alcune scelte diverse e apprezzabili, l’identità delle due trame dal primo all’ultimo minuto costringe a un paragone dal quale ne esce schiacciata.
Lo splendido, meritatissimo premio Oscar, Philip Seymour Hoffman lascia il posto a Toby Jones, che dà vita a un personaggio meno affascinante, mai profondo (fatta eccezione per la frase finale, citata qui sopra), inizialmente freddo finché, sufficientemente delineato, smette di rappresentare se stesso e inizia ad interagire con la storia. Non è un caso che sia assente il Capote scrittore: la scelta di occuparsi solo del lato sociale dell’uomo ci priva dell’aspetto forse più interessante.
Attorno a Truman gira un universo femminile fatto di pettegolezzi e nient’altro, al quale è estranea Nelle Harper Lee, più amica e meno confidente, compagna di ricerche per tutta la prima fase in Kansas.
Le ricerche sono quelle intorno ad una famiglia di agricoltori massacrata durante una rapina: l’ispirazione per un articolo finirà per diventare “A sangue freddo”, il suo più grande successo, ma anche il suo ultimo libro. La svolta, nelle ricerche di Truman e Nelle, in quelle della polizia (non male il personaggio di Jeff Daniels, tra i pochi elementi di spicco della prima parte del film), ed anche nel film, arriva con la cattura degli assassini.
Il rapporto tra Truman e Perry (Daniel Craig, nei cinema contemporaneamente col ‘macho’ James Bond di “Casino Royale”) è ben descritto, col primo così credibile nei suoi tentativi di sedurre il prigioniero da lasciare il dubbio su quale dei suoi due atteggiamenti contrastanti sia mosso da ipocrisia e quale spontaneo: o, più probabilmente, lo sono entrambi da una spontanea ipocrisia (da qui l’infamous del titolo) che lo rende detestabile nel suo apparire, di volta in volta, debole o cinico.
Alla fine di un ottimo secondo tempo, la cosa che colpisce di più è la mezzora impiegata da Dick per morire dopo l’esecuzione: sintomo, purtroppo, che il film lascia un’impronta lieve, pronta ad essere cancellata al primo impatto con la realtà. |