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Stati Uniti. Sospettato di essere un terrorista, Anwar El-Ibrahimi, ingegnere chimico di origine egiziana, viene sequestrato da alcuni agenti federali e sottoposto ad uno spietato interrogatorio. Tra coloro che assistono all'ingiusto trattamento riservato ad Anwar, e ad altri come lui, c'è Douglas Freeman, un analista della CIA che prende a cuore la sua causa e cerca di favorirne la scarcerazione. Nel frattempo, Isabelle El-Ibrahimi, ignara della sorte del marito, non avendone più notizie inizia la sua ricerca disperata. |
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L’11 settembre è più importante della costituzione
Tra Egitto e Washington D.C., sulle orme di “Syriana” “Rendition” ripropone l’intricato garbuglio dei rapporti non-ufficiali tra l’intelligence americana e il Medio Oriente.
Anwar El-Ibrahimi è un cittadino egiziano cresciuto e residente negli Stati Uniti: ha un figlio e una moglie (Reese Witherspoon) in attesa del secondo, ed è in viaggio per un congresso di ingegneri chimici in Sud Africa. All’aeroporto, dove lo aspettano al suo rientro, non arriva nessuno.
Gavin Hood e soprattutto lo sceneggiatore Kelley Sane sembrano intenzionati a tirar fuori le unghie nell’affrontare il problema del delirio di onnipotenza americano: la C.I.A. fa trasferire i sospetti terroristi senza estradizione, la stessa C.I.A. lascia che questi prigionieri vengano torturati per ottenere – o inventare – informazioni. Il crimine politico è palese, ma rimane sempre in ombra, un passo indietro alla storia che riguarda strettamente i personaggi; quello umano, invece, è buttato in faccia allo spettatore senza alcuna remora, e di questo, lungi da essere una novità, vanno ringraziati.
La sintesi morale di tutto il film la dà Douglas Freeman (Jake Gyllenhaal), l’uomo americano in Egitto, che ha il compito di assistere agli interrogatori (correggo: la C.I.A. non lascia torturare i prigionieri, controlla che vengano torturati per bene); al telefono con Corinne Whitman – per certi ruoli le donne sono molto più adatte degli uomini, e Meryl Streep è perfetta – parla candidamente del suo lavoro: “è la mia prima tortura”. “Gli Stati Uniti non torturano”, la risposta della donna dopo un secondo di gelo.
Un coraggio a metà, quello degli autori di questo film, che preferiscono chiudere per ultimo il filone che riserva il caro vecchio americano lietofineconabbracciodifamiglia, puntuale come il prezzo nella quarta di copertina di un libro – o come i titoli di coda, per rimanere in tema.
Il merito principale è da ascrivere a Megan Gill, montatrice, o a chi per lei è riuscito a dare a “Rendition” un ritmo non elevatissimo ma costante, intrecciando i due fili principali così bene (il terzo, con la moglie di Anwar che indaga, è secondario e ininfluente ai fini dell’azione, ma dovrebbe costituire il vero atto d’accusa contro il sistema) da sembrare uno solo, senza far nemmeno venire in mente allo spettatore che l’unità di tempo non sia sempre una necessità.
Un paio di battute divertenti, una infelice: “Rendition” rimane un buon film che lascia meno di quanto promette, in virtù di un finale tirato via con troppa fretta. |
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