“La società si contrappone al desiderio di libertà, di evasione, anche se poi la libertà, l’evasione, portano al desiderio di morte.” Parola di Robert Bresson.
Parole che potrebbero, con facilità, essere attribuite a Charles, il giovane “diavolo” de "Le diable probablement".
Partecipe dell’ondata libertaria del ’68, Charles ha abbandonato la famiglia, e vive da solo.
Lo sguardo disincarnato di Bresson lo coglie nella solitudine ingiallita della sua stanza. Apatia, noia. Va alle riunioni di un gruppo di estrema sinistra, e si trova in disaccordo con i compagni sull’uso della violenza. Il disaccordo è vuoto di senso, il volto di Charles è un fermo immagine; le immagini bressoniane raggelano con lui. Michael, un suo amico che sta montando un film contro l’inquinamento, si preoccupa del suo stato mentale, e decide di andare a vivere con lui. Come nel precedente Lancelot du lac (1974), e, con maggior radicalismo, in L’argent (1983), Bresson fa urlare (sottovoce) alla natura e al mondo oggettuale, l’angoscia e lo scarnificarsi della coscienza nell’uomo contemporaneo. Le immagini del film di Michael, immagini orrorifiche di un mondo avvelenato dagli scarichi industriali (dall’Argent quindi!), gridano il malessere che il volto di Charles, nel suo mutismo, non può svelare.
I primi piani insistiti, s’accaniscono sugli occhi spenti del giovane, quasi a voler accendere luce, accendere vita. Anche il tradimento di Edwige, la sua ragazza, lo lascia indifferente; quando, in chiesa, i suoi compagni contestano un prete progressista, asserendo che non esiste progressismo che non sia ateo, Charles si trova di nuovo in disaccordo; la religione è assente da sempre, perché Dio non è morto, non è mai esistito. La lucidità folle di Charles (la lucidità in fondo è follia) instaura uno scarto con il conformismo dilagante dei suoi compagni. Siamo di fronte a un tipico “isolato” bressoniano, come Giovanna d’Arco, come l’asino di Au hasard Balthazar, come Mouchette: esseri che, nella loro logica a-civile purezza, non si pongono come vittime della società, ma come stranieri che la storia non contempla, asceti dell’inquietudine, persi nelle lande desolate e desolanti in cui brancola la società delle certezze. Il malessere di Charles cresce, le sue stravaganze si moltiplicano sotto lo sguardo ebete dei suoi conoscenti.
Si concede a una donna per gioco, ma cerca di affogarsi in una vasca; i suoi amici sospettano delle sue tendenze al suicidio; la società stessa sembra partecipare inorridita al martirio laico di Charles, in un autobus passeggeri impauriti parlano del diavolo. L’incontro con il tossicodipendente Valentin segna l’incipit tragoediae: Charles, in una sorta di con-passione mortuaria, aiuta il ragazzo a bucarsi; l’intera sequenza giunge all’occhio, dura, sconvolgente, lancinante quanto caste e ascetiche sono le immagini bressoniane. Si riparano, la notte, in una chiesa ma Valentin al mattino fugge scassinando la cassetta delle offerte. Charles viene arrestato, e affidato ad uno psicanalista. In una seduta che, in mano ad un regista meno rigoroso scadrebbe con facilità nel grottesco, lo psicanalista parla a Charles diffusamente della morte quasi parafrasando gli assunti teorici del Freud di Al di là del principio di piacere (custodendo avidamente gli incassi della giornata). Incontrato di nuovo Valentin, Charles gli promette di pagarlo se lo ucciderà. La notte, in un cimitero, Charles si fa sparare alle spalle: liberato dal vuoto della vita, novello Sisifo camusiano, in un’eutanasia dove la morte s’imbelletta, si fa bella (dal greco eu-thanatos).
Un’attimo prima di morire aveva detto: “Neppure di fronte alla morte la vita può avere dignità”...
Le diable, probablement... |