Ogni libro di Ernest Hemingway, questo pubblicato postumo ma ambientato in piena lost generation anni '20, è un incredibile contenitore di emozioni e spunti narrativi, spesso al limite della comprensibilità etica di ognuno di noi ma perfetto nel tracciare il percorso fedelmente autobiografico del suo creatore.
Così John Irvin sceglie di portare sullo schermo “The Garden of Eden”, tratto appunto da un romanzo omonimo dello scrittore americano, tracciando una regia fedele e sincera che non ha paura di mostrare i numerosi passi oscuri attraversati.
L'amore diventa soprattutto fisico, subito passionale. La relazione, chiara già dal primo sguardo, tra Marita e Catherine, funziona soprattutto carnalmente. Saffo, dev'essere il suo fortunato anno cinematografico, offre uno dei suoi baci più ispirati, ben più sen(s)suale dell'alleniano “Vicky and Cristina”, in sala da meno di due settimane.
I limiti del film sono nei troppi indugi mostrati e fuori fuoco, gli stessi e non soli che erano stati imputati alla disastrosa precedente pellicola del regista inglese "L'educazione fisica delle fanciulle”; troppe volte non si riesce a focalizzare i contenuti, si perde il centro e si finisce nell'impersonale successione di eventi che a volte sfiorano la vacuità narrativa, pure inizialmente così ricca di possibilità.
Prova internazionale e in lingua per Caterina Murino a suo agio e in fondo anche bravina in un ruolo a lei molto congeniale; certamente meno adatta Mena Suvari, decisamente bruttina (ci perdoni) che consegna una Catherine impacciatamente bollente, da “American Beauty” sono passati quasi dieci anni e non tutti i fiori, sbocciati prematuri, resistono a lungo. Chiude il trio dell'amore il sessualmente soddisfatto David (Jack Houston), marito, amante e attore decisamente fortunato.
Presentato nella sezione Extra 2008 del Festival Internazionale del Film di Roma, anche se relegato, poverino, nel periferico e disarmante tendone della Salacinemalotto. |