Ho visto abbastanza
Un deputato americano che ama la bella vita si ritrova a guardare coi propri occhi un campo profughi in Afghanistan: è una distesa che sembra infinita, per decine di chilometri una vallata intera pullula di disperati, ed oltre quella valle se ne possono immaginare chissà quante altre uguali.
“Ho visto abbastanza”, dice il deputato prima ancora di vedere per davvero.
Questa è solo una, la più suggestiva, delle chiavi di lettura de “La guerra di Charlie Wilson”.
Al polo opposto si trova, ugualmente vera, una storia profondamente americana, fatta da un eroe non perfetto ma dal vivo senso della patria, fatta da un nemico che, al cinema, sembrava negli ultimi anni dimenticato: è con la stessa follia che porta Sylvester Stallone ad immaginare il pubblico di Mosca dalla sua parte in “Rocky IV”, che Tom Hanks (produttore oltre che protagonista del film, tratto dal libro-verità del giornalista George Crile) incensa l’addestramento dei mujaheddin afgani. Ma la sensazione, pur nell’ambiguità del soggetto, è che sia il cinema a vincere: il cinema di decine di film di propaganda non per questo brutti, film che avevano un senso in un preciso momento e che grazie alla qualità del prodotto perdevano la connotazione propagandistica per assurgere allo stadio più alto, quello di (bel) film, semplicemente.
Forse non ci sarà mai una risposta sincera alla domanda ‘perché’, perché portare in scena un eroe della guerra fredda, per di più partendo da un testo che come fonte ha le dichiarazioni – vere, bisogna dirlo – dell’eroe stesso. La guerra di Charlie secondo Charlie, verrebbe da dire. E verrebbe anche da rispondere alla domanda di prima, parlando di una guerra non solo vinta, ma comprensibile nelle sue dinamiche, dove ci sono un buono ed un cattivo, e per questo è accettabile, è anelata da chi ha paura di una guerra senza nemici, senza obiettivi, senza un perché.
Ma è la risposta sbagliata: quella giusta è il cinema, quello che non resiste davanti a una storia che non chiede altro che di essere raccontata sul grande schermo. Il cinema di Mike Nichols, che ricordiamo soltanto – o quasi – per un buon film di 40 anni fa, “Il laureato”, e che ritroviamo con gioia in un racconto piano dove altri avrebbero ingarbugliato, breve dove altri avrebbero tirato lungo per due ore e mezza, virtuosistico senza essere arrogante in alcune inquadrature come quella tra i due specchi del bagno di Joanne. Il cinema come recitazione, per finire dal punto di partenza: Tom Hanks sembra spogliato del successo che da metà anni ’90 sembrava porre i suoi personaggi in una dimensione superiore, ed è finalmente piacevole da seguire per tutto il film; Julia Roberts caratterizza con classe un personaggio minore, restituendogli nel film il ruolo chiave che ha avuto nella vicenda; con Philip Seymour Hoffman siamo probabilmente di fronte al miglior attore di questi ultimi anni, sorprende ogni volta che lo si vede – molto spesso, ultimamente – e convince sempre.
E’ un film ambiguo, come già detto, che potrebbe deludere chi ha aspettative, sorprendere chi è prevenuto: tra qualche anno non se ne parlerà più, probabilmente non si ricorderà più quello che, allora, confermerà di essere stato un bel film. |