Tra realtà e apparenza, Sidney Lumet si muove assieme ai suoi imputati a cavallo di una storia vera dall’apparenza di favola.
L’aula nella quale si consuma il processo per mafia più lungo d’America per due anni diventa un mondo a sé stante, lontano dai crimini che Di Norscio e gli altri italoamericani alla sbarra potrebbero aver commesso, lontano dall’opinione pubblica, dalle televisioni.
Il microcosmo di quest’evento a suo modo storico è composto da un giudice, un pubblico ministero con le sue prove ed i suoi testimoni, la giuria ed il pubblico attorno al banco dove siedono venti imputati e solo diciannove avvocati. Il maxiprocesso si trasforma così nella sfida di Jackie Di Norscio al suo accusatore, lo Stato, e con esso alla legge antimafia; difendendosi da solo Jackie diventa una variante imprevedibile, riuscendo ad accattivarsi fin dalle prime battute del processo la benevolenza dei giurati.
Ribaltando nei tempi La parola ai giurati, la sua prima esperienza in un tribunale, cinquant’anni dopo Lumet si sofferma per tutta la durata del film sull’estenuante dibattimento, lasciando alla giuria giusto il tempo di leggere un verdetto emesso in poche ore. Ma in questa operazione ribalta ogni cosa, assecondando il suo protagonista: il lungo (e noioso) processo è inquadrato brillantemente, lasciando allo spettatore momenti di puro divertimento; le premesse diventano apparenze, le prove illazioni, gli imputati avvocati, i presunti colpevoli intravedono una luce insperata alla fine del tunnel.
Come ci sia riuscito, snaturando un genere tanto radicato nella cinematografia americana, è facilmente spiegabile: ignorando il caso. Sappiamo i capi d’accusa, il numero degli imputati e l’ostinazione di chi li accusa, ma nulla in merito alla loro innocenza o colpevolezza; come se non bastasse, le prove non vengono esposte, tranne pochi casi esemplari, né confutate, ma semplicemente messe in dubbio. Una scelta corretta, dato il clamore che sollevò al tempo il processo, rispettosa d’una legge che lascia ai giurati l’ultima parola.
In sostanza, c’è il processo ma non c’è il delitto: la costruzione, anziché crollare, si giova di un ottimo Vin Diesel, al centro della scena dal primo all’ultimo minuto, innegabilmente simpatico non solo alla giuria nel suo farsi beffe delle convenzioni prima che della legge.
Simpatico fino a prova contraria. Prova che non arriva. |