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In una comunità di novizi arriva Andrea, un giovane turbato e smarrito, in cerca di qualcosa in cui possa ancora aver un senso credere. Nel silenzio di quel mondo e nella rigidità di quegli insegnamenti il giovane focalizza la sua attenzione sulle persone che ha intorno, attratto dall’atteggiamento tormentato di Fausto e dai comportamenti ribelli e decisi di Zanna, e si ritrova alla fine a dover fare una scelta di fronte a Dio e a se stesso. |
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«Ho bisogno di un ideale, un motivo per cui vivere. Non dormivo più per la paura di voltarmi indietro e non trovare niente». «Cosa vuoi diventare?» «Una persona». Si apre così l’ultimo lavoro di Saverio Costanzo, presentato quest’anno al Festival di Berlino. Un’inquadratura fissa, statica, sul volto di un uomo e delle parole che riflettono un bisogno estremo di umanità.
Andrea entra in una comunità di novizi, in un monastero circondato dal mare, per cercare se stesso e qualcosa che possa dare ancora senso alla sua esistenza. L’impatto con quel mondo di rigide regole lo porta però a confrontarsi con un’interiorità confusa e ignota. Corridoi bianchissimi di pietra fredda, persone algide e impenetrabili che sembrano essere fatte di quello stesso materiale: estranee alla luce del sole che entra dalle finestre. Assenza di parole che nasconde inquietudine, calma che nasconde rabbia repressa. Tanto silenzio, penetrante da bucare la testa con la sua eco e nell’aria solo il rumore dei passi e lo scricchiolio del legno. Tutta quella freddezza proprio dove il dialogo e l’amore dovrebbero essere più profondi.
Il film punta sui contrasti e sulla colonna sonora, notevole e impeccabile, e lascia che siano loro a parlare. Il regista comprende la forza di una recitazione improntata sul corpo in relazione allo spazio circostante: scruta gli attori da vicino, li delinea con le loro stesse ombre per creare figure nere che si stagliano sui muri, contrapposte alla luce chiara del giorno. I loro contorni diventano più taglienti della loro stessa espressività. È come se davanti alla macchina da presa Costanzo avesse un quadro da riempire con un continuo gioco di riflessi, che si fa a tratti estenuante: tutto in uno stile geometrico, fino alla perfezione. Un rigore che riflette quegli ambienti e le regole che bisogna abbracciare se si decide di farne parte. E le musiche rispecchiano le immagini e si fanno vivaci quando tutti sono riuniti a tavola, mistiche e oscure nella notte, poi martellanti a creare tensione; si mescolano con il suono delle campane e adottano la melodia di un piano per scolpire gli stati d’animo in quei giorni di preghiere. Poi giunge la morte, ma solo gli occhi di Andrea e quelli di Zanna (uno strepitoso Filippo Timi), l’unico che lì dentro sembra aver mantenuto una parvenza di umanità, rivelano ancora cosa voglia dire il pianto.
Il film può essere letto come un tentativo di conoscenza di fronte ad un tema tanto personale come quello della fede, ma diventa in alcune note logorante ed eccessivo e non riesce a dare più di quanto dovrebbe, forse perché la confusione dello stesso regista cerca in qualche modo una figurazione, almeno cinematografica, ma sembra non trovare, tristemente, una risoluzione. |
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