A un certo punto Hiroito guarda un disegno: la macchina da presa inquadra in campo stretto il disegno, e lo spettatore ha un brivido nell’identificarsi con l’imperatore, la divinità. Mentre la macchina scende, a scorrere l’opera, spunta nell’inquadratura la nuca di Hiroito che la guarda; l’illusione svanisce, la divinità riprende le sue distanze. La rivoluzione, mancata nel film, è lo strumento col quale l’Imperatore divena uomo: la distanza tra finzione filmica e realtà è quella tra il brivido dello spettatore e il suicidio dello scriba.
Sokurov illumina, attraverso una fotografia prigioniera anch’essa dell’orrore di Hiroshima, il declino di un mondo nel quale il crollo di un ideale fa più rumore di quello di un Impero. L’umanizzazione di Hiroito nasce nello schermo, nell’indagare le sue smorfie, i suoi tic di vecchio, e da lì si propaga all’azione, diventa messaggio, finisce rivoluzione.
Sokurov si appropria del topos principale del cinema classico giapponese, il passaggio da un mondo ad un altro, rivestendolo della lentezza, dei silenzi del modello russo contemporaneo (Il ritorno, del 2003); scelta, necessità, imposizione: quale che sia il motivo, il Sole non è più al suo posto. La storia ha mietuto una vittima illustre: l’ultima delle divinità.
Presentato al Festival di Berlino 2005. |