Il mondo è un brutto posto
Senza un minimo di compiacimento, “The Road to Guantanamo”, raccontando il passato prossimo di tre ragazzi, parla del presente di tutta l’umanità.
In-umanità, forse, sarebbe più corretto: la strada per Guantanamo è un bivio nel quale sostantivo ed aggettivo, in questo termine di cui ormai si parla senza più aderenza alla realtà, si sono (definitivamente?) separati. L’uomo sotto accusa non è il carceriere che vede nel calpestare la dignità altrui il riscatto della sua miserevole vita, non è il talebano che combatte per Bin Laden, non fa parte di Al-Quaeda, non è un Marine; e non è nemmeno un presidente, Il Presidente (del mondo), intelligente al punto di rispondere a chi solleva dubbi sulle condizioni dei prigionieri che “tanto sono tutti assassini”. Per nessuno di questi ‘assassini’ è stata provata l’appartenenza ad Al-Quaeda, e nessuno di loro ha mai creato false prove pensando così di giustificare le sue guerre e la morte di migliaia di persone. Sotto accusa, è l’Uomo: lo schifo del mondo è lo specchio fedele dello schifo dell’Uomo.
La storia si racconta da sé, nel senso che sono gli stessi protagonisti, coloro che l’hanno vissuta, a raccontarla: i protagonisti sono dunque sceneggiatori del film, e non si può chieder loro la ‘nuda verità’ su quanto sia realmente successo in Afghanistan, sul vero motivo e sulle modalità del loro viaggio. Ma questo non importa, perché non è di questo che parla il film: la verità è in tutto quanto ha seguito il loro arresto, ed è inconfutabile. Non si può più nascondere la testa sotto la sabbia e dire che non è vero, che sono accuse infondate: le atrocità nei confronti dei prigionieri di cui, solo per rimanere all’attualità, tutto il mondo accusa con sdegno Saddam Hussein, sono le stesse di cui è responsabile Bush (e di cui non risponderà mai), con la differenza che il primo è un dittatore di un (relativamente) piccolo Stato mediorientale, il secondo è la massima espressione della civiltà occidentale, in quanto suo capo eletto – termine usato senza ironia, pur sapendo come sia avvenuta in realtà la sua elezione.
Winterbottom decide di non raccontare, ma di lasciare lo spettatore e la storia faccia a faccia, da soli. Sono i fatti al centro della narrazione, senza artifici, senza compiacenza né morbosità: al regista sembra non interessare la sua storia, come dire che non importa chi la racconti, ma importa che sia raccontata. Proprio questa scelta di assenza è la sua voce, il suo personalissimo modo di raccontarla: giustamente premiato, al Festival di Berlino, con l’Orso d’Argento per la miglior regia. |