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“Wong Kar-wai, regista di Hong Kong, ha assunto con soli sette film, realizzati nel corso degli anni Novanta, una posizione privilegiata tra i cineasti contemporanei, proponendosi prima come un regista di culto per le giovani generazioni, poi consolidando la sua fama presso il pubblico di cinefili dei Festival di tutto il mondo. Egli racconta le storie di solitudini urbane, di uomini e donne che sono corpi desideranti, perduti nel labirinto della megalopoli, con uno stile inconfondibile e rigorosissimo che è ormai diventato il suo marchio di fabbrica. Wong Kar-wai, da alchimista delle immagini, dona ad ogni film un fascino ammaliante, frutto di un accurato dosaggio dei vari elementi che concorrono alla realizzazione di un film: lo spettatore viene immerso in un’esperienza di flusso audiovisuale, che lo trascina dall’inizio sino alla fine in una girandola di sensazioni, di sollecitazioni visive scaturite dal talento pittorico del regista, il quale, come un impressionista, più che descrivere una situazione o un personaggio, sembra alludervi con mano leggera. La ragione prima della modernità di Wong Kar-wai è la sostanziale incollocabilità del suo cinema, che sfugge ad ogni tentativo di riduzione critica.
La contraddizione paradossale consiste nella consapevolezza di Wong di essere un Autore nell’ambito di un cinema (quello di Hong Kong) che ha costruito le sue fortune sul concetto corale di genere. Egli, allora, lancia una sfida ai suoi spettatori: li seduce con la sua poetica e con la fascinazione delle sue forme, appagando quel desiderio di autorialità ben descritto da Roland Barthes, ma al tempo stesso ricorda a questi stessi spettatori che stiamo vivendo in un’epoca post-autoriale.” (dal testo) |
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