Secondo lungometraggio di Polanski, segue “Il coltello nell’acqua” e precede “Cul de Sac”.
Storia di una nevrosi: una ragazza si rinchiude in un appartamento di un quartiere di Londra coi cadaveri delle sue due vittime, un coniglio in decomposizione e molte allucinazioni.
Film sul terrore e sull'arte del terrore, come soltanto “Psycho” di Hitchcock.
La macchina da presa di Polanski si rinchiude fra quattro mura: quando ne esce, nelle rare scene girate all'aperto, accentua ancora di più il sentimento di oppressione, di chiusura.
La brezza che solleva i capelli biondissimi di Catherine Deneuve, i suoni e le immagini della strada non sono rassicuranti, familiari. Ci riportano al contrario immediatamente all'universo rinchiuso dell'appartamento, dove infatti, quasi subito, ritorniamo. La tregua è stata breve. Entriamo nelle stanze, strisciamo all'altezza dei pavimenti, scivoliamo lungo le pareti alla ricerca dei segni della nevrosi.
Il mondo di “Repulsion” è come un cubo perfetto e trasparente, che il regista si rigira fra le mani e ci mostra. L'ambiente diventa così protagonista, si fonde con l'individuo come in tutto il cinema vero: lo risucchia letteralmente fino a lasciarlo ormai svuotato, alla fine, e come senza vita.
Il fascino di “Repulsion”, l'abilità del regista, la bellezza dell'oggetto osservato, rendono al film, intatta, tutta la sua forza poetica.
Polanski si riconferma come uno dei più originali registi delle ultime generazioni.
Orso d’argento al festival di Berlino (1965).
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