Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Ruoli e mestieri nel cinema Schiavi

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a cura di Flavia D'Angelo
L'Enciclopedia Treccani definisce la schiavitù come la “condizione propria di chi è giuridicamente considerato come proprietà privata e quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio del legittimo proprietario”. Un approccio giuridico, quindi, a un fenomeno antropologico e culturale che ha influenzato in profondità la storia umana e ha determinato uno dei più grandi traumi sociali della storia contemporanea. Tra tutte le forme di schiavitù una si è imposta nell'immaginario comune come il grande trauma rimosso della modernità. La deportazione di massa dei neri africani in Nord America ha anche segnato per secoli una società che, solo attraverso il drammatico confronto con se stessa, è riuscita a rinnovarsi fino a fare del melting pot multietnico il suo vanto e la sua forza. L'arte cinematografica non poteva non cimentarsi con la rappresentazione dalla tratta degli schiavi africani: pochi altri fatti storici hanno incarnato così limpidamente il dramma dell'eroe e la sua lotta per la sopravvivenza. Allo stesso tempo, il cinema ha sempre temuto di cadere nella trappola della spettacolarizzazione del male, giocando spesso in difesa. A poche settimane dalla consacrazione agli Oscar di “12 anni schiavo” affrontiamo una rapida, e certamente non esaustiva, carrellata delle pellicole che hanno raccontato la tratta degli schiavi e le sue conseguenze.

Non molti ricordano il nome di Hattie McDaniel eppure quasi tutti ricordano Mami, la fedele governante di Rossella in “Via col vento”. Fu per questo ruolo che la McDaniel vinse l'Oscar come Miglior attrice non protagonista, diventando la prima afro-americana a conquistare la prestigiosa statuetta. La scelta dell'Academy fu nterpretata da molti come razzista: il ruolo che era stato assegnato alla McDaniel era quello della schiava di colore ignorante, ciecamente fedele alla sua padrona – nonostante le di lei intemperanze e il dettaglio di una guerra civile ufficialmente combattuta per liberare la sua gente. “Via col vento” è il film più celebre sulla guerra civile americana ma la racconta sorvolando sulle sue cause profonde. Il genere melodrammatico a cui appartiene gli permette di mostrare gli eventi nel modo più archetipico possibile: la guerra, la morte, la povertà sono parte dell'avventura di Rossella e non hanno bisogno di imbarazzanti spiegazioni. A Tara di schiavi se ne vedono pochi: dopo la sconfitta ecco arrivare l'ex schiavo arricchito che vuole speculare sulla disgrazia occorsa ai vecchi padroni ma è tutto parte del dramma romantico, non storico. Il film esce in sala nel 1939: la segregazione razziale è legge negli Stati Uniti, sarà la guerra alle porte e l'impegno della comunità afro-americana nel conflitto a dare nuova vita alla lotta per la parità.

Nel 1989 Hollywood porta sullo schermo una storia vera: “Glory – Uomini di gloria” racconta un meccanismo di integrazione che aveva visto il suo ultimo utilizzo nella II Guerra Mondiale ma non è l'ambiguo passato recente che interessa il pubblico, ansioso di incontrare una catarsi collettiva nel ricordo di un vigoroso passo in avanti. Il film di Zwick racconta la formazione, durante la Guerra di Secessione, del primo plotone di soldati neri in parte ex schiavi, discriminati e usati a scopi propagandistici. La sceneggiatura è tratta dall'epistolario del capitano al comando del plotone: l'identificazione del pubblico è, nuovamente, con il giovane comandante che si redime abbandonando le proprie prevenzioni. Se in “Via col vento” la schiavitù è quasi ignorata, cinquant'anni dopo il cinema inizia a affrontare le ambiguità profonde dell'America ma sempre e solo con un intento didascalico che è vanto e difesa: si mostra la “giusta via” e si evitano sia la spettacolarizzazione fine a se stessa sia lo stile puramente documentaristico, entrambi banditi dalla presenza di una ferita ancora aperta. Molto più ambiguo, e in questo senso più incisivo, “Jefferson in Paris” – film di James Ivory del 1995. Alla Casa Bianca siede Bill Clinton e Hollywood affronta per la prima volta il tabù della tacita accettazione del sistema schiavile anche da parte della società bianca più colta. Il film racconta l'esperienza del futuro Presidente come ambasciatore nella Parigi pre-rivoluzionaria e la sua relazione con la schiava, di molti anni più giovane, Sally Hemings. Pur essendo considerato uno dei padri fondatori della nazione e essendosi battuto a favore dei riconoscimento dei diritti umani, Jefferson era anche un ricco proprietario di schiavi e non sostenne mai l'abolizione della schiavitù. Mostrare un uomo impegnato politicamente dalla “parte giusta” ma che era anche uno schiavista, rappresenta una rottura con la tradizione cinematografica che pretendeva, accanto al racconto storico una catarsi personale che si identificasse con quella – tutta da venire – della nazione.

In questo senso soli due anni dopo (1997) “Amistad” di Spielberg si inserisce in una tradizione cinematografica classica, con una netta divisione tra buoni e cattivi e concentrandosi sulle spinte abolizioniste della migliore società statunitense. La storia vera degli schiavi di una nave spagnola, diretta negli Stati Uniti, che si ribellano ai loro aguzzini solo per diventare oggetto di una contesa giudiziaria per stabilire se siano o meno nati liberi, se siano quindi uomini o merce, ha una sua intrinseca potenza. “Amistad” è il primo film a mostrare l'orrore della tratta degli schiavi con immagini dure e difficili da dimenticare. In questo è notevole la scelta di mostrare l'abiezione con gli occhi dello schiavo e lasciare al benintenzionato avvocato bianco solo una ricognizione a posteriori sulla nave sulla quale si trovano catene e attrezzi di tortura. Un modo elegante per sottolineare che quella parte di società non si è mai trovata faccia a faccia con l'orrore e deve cercarlo, scoprirlo per poterlo poi esorcizzare.
Gli anni novanta sono il momento clou per i film sul tema della schiavitù. Alla Casa Bianca è stata confermata l'amministrazione Clinton, le azioni per la parità sono in campo e il cinema segna un nuovo passo avanti nel raccontare la schiavitù. Nel 1998 esce in sala “Beloved” di Jonathan Demme, tratto dall'omonimo romanzo della scrittrice afro-americana Toni Morrison. Il film racconta la vita di un'ex schiava che non riesce ad adattarsi alla vita libera. Il film riprende gli aspetti soprannaturali del romanzo, lanciando uno sguardo per la prima volta alle conseguenze traumatiche di secoli di schiavitù lì dove gli altri film si erano fermati al momento glorioso del pentimento dell'ex padrone, dell'emancipazione dell'ex schiavo, della vittoria del bene sul male. Ma la novità di “Beloved”, che facendo sua la lezione di Spielberg non lesina scene forti e immagini disturbanti, è mostrare anche l'abiezione a cui gli schiavi si sono dovuti piegare per sopravvivere. Una verità impossibile da negare ma difficilissima da affrontare da entrambe le parti.

Nel 2012 escono in Italia due film sul tema della schiavitù, due pellicole che più diverse non potrebbero essere. Quindici anni dopo “Amistad” Spielberg affronta con “Lincoln” nuovamente il tema dell'emancipazione mostrando il durissimo dibattito tra le due anime, abolizionista e schiavista, del democratico Parlamento degli Stati Uniti d'America. Il film è un'analisi dei meccanismi di consenso e di voto validi ancora oggi e la celebrazione della capacità degli americani di superare da soli i propri limiti e le barriere sociali. In contemporanea è in sala l'attesissimo “Django Unchained” di Quentin Tarantino. Il film osa ciò che mai è stato osato: usa la schiavitù anche come mezzo di intrattenimento. Il fascino del film sta proprio nel suo permettersi di caricare di esaltazione il momento del riscatto, che diventa semplice e pura gioia della (giusta) vendetta senza profonde analisi morali o aperture alla speranza per “un mondo più giusto”. Senza tracciare una definizione troppo manichea di nero/vittima e bianco/carnefice e mostrando ogni aspetto del degrado connesso con l'esercizio della proprietà su un altro essere umano, Tarantino apre nuove possibilità alla rappresentazione cinematografica della schiavitù. Né Spielberg né Tarantino si aggiudicano l'Oscar come Miglior film che va, due anni dopo, a “12 anni schiavo”. Il film di Steve McQueen, tratto da una storia vera narrata dal suo protagonista, racconta il rapimento e la riduzione in schiavitù di Solomon: l'uomo riuscirà a veder riconosciuta la sua condizione di “nato libero” solo dopo dodici terribili anni. La forza del soggetto sta nel mostrare l'abiezione con gli occhi di chi è, fondamentalmente, simile allo spettatore medio: un benestante padre di famiglia che dà per scontata la sua normale esistenza. McQueen si tiene alla larga dalla spettacolarizzazione, senza però risparmiare accurate ricostruzioni della vita degli schiavi e dei padroni: la follia è generalizzata, sia tra chi subisce e cede sia tra chi comanda e perde la sua natura umana regredendo allo stesso stadio animale a cui ha condannato i suoi schiavi. Uno stile molto classico aiuta il regista a rappresentare accuratamente una follia sociale articolata incontrando il favore di pubblico e critica. In “12 anni schiavo” vi è salvezza (per alcuni) ma non redenzione ed è forse questo l'ultimo tabù di Hollywood che andava demolito.