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Numeri Uno Philip Seymour Hoffman

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a cura di Glauco Almonte
Philip Seymour Hoffman, deceduto a 46 anni per sospetta overdose di eroina, è stato considerato più a meno all’unanimità il numero uno tra il 2007 e il 2009: dopo una prima parte di carriera da comprimario, frenata anche dai suoi problemi giovanili di droga, nella seconda metà degli anni ’90 si nota da una parte come attore-feticcio di un giovane regista emergente (Paul Thomas Anderson) che lo mette al centro di cast molto ricchi, dall’altra per tre film di grande successo, “Il grande Lebowsky” dei fratelli Coen, “Il talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella (col quale farà quattro anni dopo Ritorno a Cold Mountain) e, nel 2002, “La 25ª ora” di Spike Lee. Il suo primo ruolo da protagonista, lo scrittore Truman Capote in “A sangue freddo”, lo consacra come attore di primissimo piano, con un meritatissimo Oscar alla sua prima candidatura; contemporaneamente, si fa conoscere anche sul versante commerciale interpretando il cattivo di turno in “Mission: Impossible III”. Nei due anni successivi è una presenza costante sul grande schermo, da “Onora il padre e la madre” di Sydney Lumet a “La famiglia Savage”, da “La guerra di Charlie Wilson” a “Il dubbio”, fino alla commedia musicale “I love Radio Rock”; oltre alla consacrazione da parte della critica di tutto il mondo, arrivano altre due nomination agli Oscar e tre ai Golden Globe. Meno pellicole, ma tutte di spessore, negli ultimi anni, che lo vedono esordire nelle vesti di regista con “Jack Goes Boating”: lavora con George Clooney per “Le idi di Marzo”, torna a lavorare con Bennett Miller ne “L’arte di vincere” a sei anni di distanza da “Truman Capote”, e soprattutto ritorna protagonista per il sesto film di Anderson (ha saltato solo “Il petroliere”, purtroppo l’opera migliore di quello che oggi è a sua volta considerato il numero uno dietro la macchina da presa), vincendo per “The Master” la Coppa Volpi a Venezia e ottenendo la sua quarta ed ultima candidatura agli Oscar. L’ultimo progetto andato in porto prima della morte è il secondo film della saga Hunger Games, “La ragazza di fuoco”, che lo vede in scena nelle ultime inquadrature in attesa del sequel, in sala da novembre, senza di lui.
In estrema sintesi, questi i film che lo hanno portato al vertice:


Magnolia” (1999, regia di Paul Thomas Anderson) – nel terzo film del regista californiano è un infermiere connotato da una bontà estrema che stride con un’imbarazzante fisicità. Non è più o meno bravo degli altri, ma è parte essenziale di uno dei film corali in cui tutto il cast si esprime su livelli altissimi.

La 25ª ora” (2002, regia di Spike Lee) – interpreta un insegnante innamorato di una delle sue studentesse, amico del protagonista-spacciatore Edward Norton; è forse il miglior film di Spike Lee, che riesce ad ottenere successo di critica e ottimi incassi sia negli Stati Uniti che in Europa.

Truman Capote – A sangue freddo” (2005, regia di Bennett Miller) – il primo dei due biopic sullo scrittore di New Orleans è l’unico che resta nella memoria per l’interpretazione magistrale di Hoffman, vincitore per questo ruolo pressoché di tutti i premi esistenti: riesce a cogliere in tutti gli strati la complessità di Capote, personaggio che attira e respinge allo stesso tempo, crudo e ammaliante, buono e cattivo. Nella sua interpretazione c’è tutto quanto un attore può dare a un personaggio.

Onora il padre e la madre” (2007, regia di Sydney Lumet) – l’ultimo film di uno dei grandi autori di mezzo secolo di storia è un mirabile esempio della situazione in cui Hoffman darà il massimo nell’ultima fase della sua carriera: pochi protagonisti (lui e Ethan Hawke, un passo dietro Marisa Tomei) che si dividono la scena senza la pressione di tutto il film addosso, mostrandosi al tempo stesso prim’attore e spalla; dei due fratelli Hoffman è quello che si droga...

La famiglia Savage” (2007, regia di Tamara Jenkins) – film indipendente presentato al Sundance, non va sottovalutato proprio per la presenza di Hoffman, che riesce a dare spessore a un personaggio apparentemente piatto, restituendo equilibrio con la propria interpretazione a una sceneggiatura sbilanciata dalla parte della sorella Laura Linney (anche qui due protagonisti e un terzo alle loro spalle).

Il dubbio” (2008, regia di John Patrick Shanley) – altro cast ristretto di primissimo livello (con lui Meryl Streep e Amy Adams), altro ruolo molto disturbante – un prete che probabilmente ha abusato di alcuni ragazzi – in cui riesce a mantenere l’ambiguità fino alla fine, autore e vittima dell’uso del potere, personaggio per il quale verrebbe naturale provare empatia ma che ti impedisce di superare l’ultima barriera. A tratti esagera, ma si vede chiaramente che si tiene a freno quanto possibile per non pestare i piedi alla Streep e allo spettatore.

The Master” (2012, regia di Paul Thomas Anderson) – dopo un capolavoro quale Il petroliere, Anderson torna a legarsi a Hoffman di nuovo nella formula del 2+1 (Joaquin Phoenix accanto a lui, Amy Adams un passo dietro), in un film ostico, interamente sulle spalle dei tre attori, nel quale tanto il predicatore Hoffman quanto il seguace Phoenix meriterebbero la ribalta quali protagonisti unici. Anche qui Hoffman lavore con il freno tirato in virtù dell’esuberanza del partner, ma è una lezione di recitazione a quattro mani.
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