Il libero mercato secondo Ken Loach è, se non il peggiore dei mondi possibili, qualcosa che gli si avvicina molto. L’Inghilterra post-thatcheriana come nemesi del mondo operaio e vittoria della logica del profitto, realtà in cui chi si adegua più cinicamente alla volontà dei “padroni” riesce a farsi strada a scapito di amici e compagni, è il quadro fosco che ancora una volta Loach restituisce al suo pubblico. Nella sequenza finale, angosciante, il regista inglese racconta non solo di un drammatico incidente di lavoro, ma della fine, forse ai suoi occhi ancor più grave, della solidarietà di classe, strozzata dall’individualismo imposto dal nuovo corso economico. Ma ad uscirne a pezzi sono tutte le relazioni sociali, comprese quelle coniugali; non sembra infatti casuale che siano le stesse mogli o ex-mogli dei protagonisti a spingerli, seppure involontariamente, verso la tragedia finale con le loro richieste di far fronte alle ristrettezze economiche (e almeno due scene significative, il mazzo di fiori di Paul tranciato dalla buca delle lettere e il litigio tra Mick e la moglie, che non riesce a sostenere la presenza in casa del marito lì rinchiuso in attesa di un nuovo lavoro, sembrano proprio voler dire questo). Come già altrove, Loach ribadisce che sono le condizioni materiali degli uomini a determinarne le condizioni morali, e Paul, Mick e gli altri sono, tal quali i protagonisti di tante altre pellicole del regista inglese, onesti e bravi ragazzi costretti dalla spietatezza dei meccanismi sociali a infrangere la legge e l’amicizia. In tutto ciò, resta la perplessità per una unilateralità di vedute che spinge pericolosamente il regista sulla strada del film a tesi; i buoni e i cattivi, fin quasi alla fine, sono più che mai due schieramenti ben definiti e incomunicabili, al punto che la vis polemica deve talvolta spingersi fino a sfiorare la demagogia; e lo stesso finale, per quanto bello, può per certi versi apparire come ultima forzatura.
Per il resto c’è poco da dire di nuovo su un film che è perfettamente in linea con la poetica di Loach anche sotto il profilo narrativo (la centralità e l’elogio dell’amicizia maschile, le difficoltà della vita della depressa provincia inglese post-industriale) e delle immagini (pochi fronzoli, colori lividi, la macchina da presa che accompagna il racconto senza vezzi d’autore). E’ senza dubbio un Loach minore, che non tradisce le aspettative degli ammiratori ma non presenta nemmeno una nuova immagine del regista che sappia trascinare i più tiepidi; godibile, non indimenticabile. |