“My name is Joe”, più che a un racconto, assomiglia in certi tratti a un trattato sociologico; l’ambizione di Loach va ben oltre la semplice rappresentazione dei drammi di uomini e donne della Scozia più economicamente depressa, per cercare di formulare una diagnosi esauriente del malessere di una nazione intera. Con una consequenzialità forse un po’ troppo schematica il regista inglese vuole mostrare come dalla povertà si passi alla marginalità sociale, all’autodistruzione o alla delinquenza, in uno sprofondare tragico che non sembra avere nessuna alternativa. Più conservatore in ciò dei conservatori stessi, al punto da arrivare quasi a confermare le tesi del più spietato determinismo sociale, Loach evita però di cadere del tutto nella trappola che lui stesso si è costruito lasciando che l’attenzione dello spettatore si rivolga con più interesse ai percorsi individuali di Joe, Sarah e Liam, tutti personaggi discretamente abbozzati e ottimamente interpretati con cui è facile entrare in sintonia. Narrativamente, “My name is Joe” assume frequentemente toni non lontani dal tragico: la secchezza dei toni e l’assenza di ogni patetismo sono per questo due elementi essenziali per l’efficcacia del linguaggio filmico, evitando che la durezza del dramma si annacqui tra troppe lacrime.
Stilisticamente, il film è coerente con tale scelta. Loach sceglie immagini sgranate, sporche, con pochissime concessioni alla fotografia e un uso quasi inesistente di colori e chiaroscuri. La macchina da presa predilige lo sguardo da lontano, il campo lungo e il grandangolo, con due importanti conseguenze: il racconto acquisisce maggiore oggettività, quasi come si trattasse di un documentario, e in più il regista riesce a mostrarci non solo la miserabilità della condizione dei protagonisti, ma anche del mondo circostante. I palazzi popolari tutti uguali, i campi di calcio di terra fangosa senza un filo d’erba, le montagne di rifiuti agli angoli delle strade, rappresentano un intero contesto di degrado che il regista è bravissimo a far percepire; interno ed esterno comunicano, e sono l’uno il riflesso dell’altro, ribadendo la visione sociale che anima tutto il film. Resta la storia d’amore tra Joe e Sarah (Peter Mullan e Louise Goodall, entrambi molto bravi), che a parte qualche piccola banalità è raccontata con altrettanta, piacevole ruvidezza, senza romanticismi inutili in tale contesto e senza sentire l’obbligo di farci assistere alla riappacificazione finale. |