Va a finire che probabilmente è Ridley Scott (sia detto con ironia), e non Roy, il vero “genio della truffa”: con il talento visivo e anche narrativo che gli sono propri, infatti, il regista inglese ha potuto far brillare come prove d’autore film appena sufficienti, sfruttando l’investitura a grande regista che la maggior parte della critica gli ha conferito, dobbiamo a questo punto presumere, prematuramente. E così, dopo il kitsch del “nuovo peplum” e il convenzionale film di guerra, Scott gira una sostanzialmente scontata commedia di un padre assente e fondamentalmente fallito che deve fare i conti con la necessità di ricostruire i suoi rapporti affettivi con la figlia e con il resto del mondo. Non basta il colpo di scena finale, che dovrebbe stravolgere le nostre prospettive su una storia che sembrava andare in tutt’altra direzione, per rendere significativa una sceneggiatura nel complesso abusata: la prima commedia è anche una (ulteriore) nota stonata in una carriera discontinua, nel senso che pur facendo parte della melodia complessiva ne evidenzia le frequenti cacofonie. Il racconto è egemonizzato dal personaggio di Nicolas Cage, artista del raggiro, paranoico afflitto da manie ossessive (dalla pulizia alla dieta ristrettissima, per non dire inesistente) ma anche molto simpatico, che crede di trovare in un analista quanto meno singolare, e soprattutto nel rapporto con la figlia adolescente la via per un rapporto più sereno con la realtà: uno spunto interessante, penalizzato però da una certa superficialità sia nello studio della psicologia dei personaggi che nella risoluzione degli snodi narrativi. La forza principale del racconto sta pertanto nella simpatia che fin dalla prima apparizione ispirano i due protagonisti: Roy, alias Nicolas Cage, con i suoi riti pazzeschi e la sua emotività torrenziale, e Angela, alias Alison Lohman, che come ogni altra quattordicenne addenta la vita e le emozioni con la stessa vitalità e lo stesso appetito straripante con cui fa esperienza di un hamburger “king size”. L’ottima interpretazione di entrambi può scusare i difetti di scrittura, ma non la regia anonima di un autore che ci aveva abituato a ben altri livelli: l’incomprensibile montaggio sincopato di diverse sequenze, come quelle che descrivono le crisi del protagonista, l’uso di una pellicola che esalta le tonalità fredde, sono le inutili licenze poetiche che Scott si concede, in mezzo a un mare di immagini purtroppo non comunicative. Sugli stessi temi, Spielberg ha fatto, in quello stesso frangente temporale, di gran lunga meglio con “Prova a prendermi”; misura delle doti contrapposte in campo? |
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