“Il matrimonio di Tuya” è l’ultimo arrivato della lunga schiera di film cinesi che hanno conquistato i festival occidentali a iniziare dagli anni ’90: è erede dei successi veneziani di Zhang Yimou (con “Lanterne rosse” e “Non uno di meno”) e di Zhang Yuan (“Diciassette anni”), fratello minore del più recente Wang Xiaoshuai (premiato a Berlino per “Le biciclette di Pechino” e a Cannes per “Shanghai Dreams”), fino all’ultimo vincitore del Lido, “Still Life” di Jia Zhang-Ke. E questo senza considerare gli Oscar (e il Leone d’oro) vinti dall’americanizzato Ang Lee con “La tigre e il dragone” e “I segreti di Brockeback Mountain”.
Wang Quan’an, fino a metà febbraio uno sconosciuto, si presenta all’Europa con l’Orso d’oro della 57ma Berlinale, una vittoria a sorpresa come tutte le vittorie di Berlino: se da un lato alla kermesse tedesca è riconosciuta l’elevatissima qualità dei suoi vincitori, dall’altro ci si è trovati fin troppo spesso di fronte ad opere difficili da digerire per il pubblico, naturale destinatario di un film. “Il matrimonio di Tuya” rientra a pieno titolo nel primo gruppo, ma vincere la diffidenza del pubblico sarà un compito duro: non c’è riuscito il vincitore del 2006, “Grbavica” (forse per colpa anche della traduzione italiana, “Il segreto di Esma”), uscito in pochissime copie e rimasto in sala per poche settimane; non era andata meglio a “U-Carmen eKhayelitsha”, la Carmen sudafricana che aveva vinto l’anno precedente. Per fortuna “Il matrimonio di Tuya” non è né un musical (per la precisione la trasposizione di un’opera) né affronta un tema duro come quello di “Grbavica”: nel suo semplice raccontare una storia, assume una posizione di rilievo nella scala con la quale li misuriamo, dall’alto della sua splendida normalità.
“Tuya” non trasmette sofferenza, nonostante rappresenti una situazione di crisi nella vita di una coppia, quella formata da Tuya e da Bater. Lui è rimasto paralizzato mentre scavava un pozzo, lei si ritrova a dover provvedere, oltre al marito, ai due figli: quando anche la sua schiena inizia ad accusare la fatica, è chiaro che ha bisogno di un uomo che la aiuti. Tutto questo è raccontato con una correttezza rara nel cinema occidentale, senza indugiare sulla sofferenza di un momento o sull’allegria di quello successivo: l’una e l’altra fanno parte del quotidiano, e come tali sono rappresentati. La realtà della campagna mongola è presentata senza alcun giudizio di merito: un’abitazione nel nulla, a 15 km dal pozzo più vicino, è una delle possibilità della vita, come lo è il non essersi mai avvicinato alla città di Bater; non è l’apocalisse, ma un punto di vista, tale e quale al planisfero alle pareti dello studio medico, con l’Asia al centro, Europa e Africa sul margine sinistro, le Americhe su quello destro. Un giudizio, implicito, affiora soltanto nella rappresentazione della città, tra stradoni, macchine, luminarie e negozi che danno vita a un contesto sociale distante anni luce da quello di Tuya: ma è una rappresentazione legata a Baolier, ricco petroliere che non riesce ad integrarsi nel mondo immutabile di Tuya. Con lui scompare questo mondo alternativo, si torna alla normalità.
Se questa normalità è mostrata veramente come tale, uno spunto sarcastico – e quindi di critica, mai semplice in un paese quale la Cina – può essere individuato nei due aspetti antitetici, il simbolo dell’era moderna e quello della tradizione: la televisione che ci mostra Wang Quan’an è inguardabile, persa nelle sue lente carrellate di paesaggi e in musiche soporifere; il vertice opposto è rappresentato dal matrimonio, non tanto nella funzione quanto nella formulazione delle proposte, rigorosamente per conto di terzi.
In linea con questa ostentata semplicità, i personaggi, pur giustamente complessi, sono tratteggiati con poche e immediate pennellate; la prima scena sembra la presentazione di Tuya, più tardi si scopre invece che l’anticipazione di una delle scene finali, ma i contrasti di una donna abituata a mostrarsi forte sono già tutti esplicitati. Bater, il primo marito, mostra da subito la sua sofferenza dietro l’apparente remissività, così come non sono una sorpresa gli slanci di generosità di Senge, nonostante l’obiettivo dichiarato di fare soldi e, con quelli, prendersi una giovane studentessa al posto della moglie.
Il finale, ma ormai c’era da aspettarselo, è in linea col resto del film: semplice, prevedibile, positivo senza essere consolatorio; bello. |