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Recensione: La fontana della vergine

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La fontana della vergine
titolo originale Jungfrukallan
nazione Svezia
anno 1959
regia Ingmar Bergman
genere Drammatico
durata 89 min.
distribuzione San Paolo
cast G. Brost (Frida) • B. Pettersson (Karin) • B. Valberg (Mareta) • M. Von Sydow (Tore)
sceneggiatura U. Isaksson
musiche E. Nordgren
fotografia S. Nykvist
montaggio O. Rosander
media voti redazione
La fontana della vergine Trama del film
Nella Svezia medievale, oscura e barbarica, una giovane viene stuprata e assassinata da tre pastori che poi, per sfuggire alla cattura, si rifugiano proprio dai genitori della ragazza. E quando costoro, smascherati i visitatori, fanno giustizia, una fontana inizia miracolosamente a zampillare presso il cadavere della vittima.
Recensione “La fontana della vergine”
a cura di Vaniel Maestosi  (voto: 8,5)
Costituire, pensare un’opera d’arte come se si officiasse un rito, costruirlo con le movenze – sospese, ieratiche, divinatorie – della ritualità. Il sacrale. Il rito filmico de La fontana della vergine fu officiato da Bergman alla fine del 1959 durante un anno fitto d’impegni (la tournée a Parigi) col Malmö Stadsteater.
Tratto da una ballata svedese del quattordicesimo secolo, Bergman ne ricava un apologo metafisico, una meditazione critica sulla religiosità e sulle “differenze” religiose.
Inger, una giovane donna, soffia sul fuoco, in un’immagine che – dal punto di vista della concezione luministica – fa pensare agli splendori di Georges De La Tour. Invoca il Dio pagano Odino. Dall’altra parte di casa i padroni ricchi pregano di fronte ad un crocifisso. Il paganesimo rimane nello psichismo dei poveri, mentre i più agiati si sono convertiti senza riserve al cristianesimo; un dettaglio sociologico sfiorato con la leggerezza incisiva del grande affrescatore di fabulae morali.
Karin, la figlia dei padroni di casa Töre e Märeta, deve portare le candele sacre alla chiesa oltre al bosco, perché alle vergini è riservato il privilegio di tale incombenza. Chiede di indossare i suoi abiti più belli. Intanto nelle altre stanze la serva Inger prepara le provviste per il viaggio: essa stessa accompagnerà la giovane.
Inger non è vergine, anzi è visibilmente incinta. Una gravidanza rabbiosa, lacerante, perché frutto di una violenza sessuale. La stessa rabbiosa stizza che la spinge a mettere un rospo vivo in una pagnotta, per dispetto alla vergine ricca Karin, in una sorta di (s)offerta “invidia dell’imene”. Inger durante il viaggio vuole fermarsi perché ha paura, in realtà vuole andare a trovare un vecchio che pratica arti magiche: il paganesimo continua a vivere, segretamente, sotto la mono-religione cristiana. Karin intanto incontra tre pastori, due adulti e un bambino, che le chiedono di dividere il suo cibo con loro. La portano in una radura e cominciano a mangiare, ma d’un tratto il rospo salta fuori dalla pagnotta. C’è un momento di grande tensione, poi l’esplodere selvaggio della violenza ferina (umana!). I due pastori adulti cominciano a violentarla e poi, con un grosso bastone, la uccidono, la derubano degli averi e fuggono. Inger ha assistito a tutta la scena, impietrita, senza muovere un dito o chiamare aiuto. Intanto i pastori giungono alla casa dei genitori di Karin, chiedendo ospitalità, un giaciglio per passare la gelida nottata. Töre e Märeta si dimostrano gentilissimi, e li fanno accomodare al pian terreno. Märeta sente dei rumori come di pestaggio, scende al primo piano e vede, infatti, il bambino che giace a terra, mentre i due pastori gli offrono delle vesti in vendita. Märeta riconosce le vesti della figlia, chiude a chiave i pastori e racconta tutto al marito. Ad avvalorare la certezza che quei pastori sono gli assassini della figlia si aggiunge il racconto disperato di Inger, che è tornata, sbigottita e dilacerata dai sensi di colpa. Töre si accinge alla vendetta, seguendo un rituale pagano: si fustiga con rami di betulla e si asperge con l’acqua purificante. Uccide con un grosso coltello tutti e tre i pastori, non risparmiando neppure il bambino. Guidati da Inger vanno alla ricerca del corpo di Karin. Trovatolo, il padre lo solleva, in un abbraccio che si strugge nel più composto addio. Dal punto dove la testa della vergine toccava il suolo sgorga una limpida sorgente d’acqua. Tutti si detergono con l’acqua in segno di purificazione.
Le simmetrie simboliche del film ne fanno un apologo dove il rigore teorico si sposa al rigore solenne e ieratico delle immagini, che sono nude, vergini, maggiormente marmoree e monolitiche rispetto al Settimo sigillo. Il mondo (mentale) pagano e il mondo cristiano sono messi in parallelo con una serie di correspondances a specchio, quasi una messa in paradigma di diversi “tronchi” sintagmatici”: Inger non-vergine, incinta per violenza, pagana – Karin vergine, cristiana. Poi il ribaltamento, il trapasso da un sintagma all’altro: Karin è sverginata, deflorata con la violenza dello stupro – mimando la vicenda della pagana Inger – ma in tal stupro muore. Muore perché cristiana, perché il moralismo sesso-fobico non può reggere alla violenza corporale, sessuale. Ma la morte di Karin fa riscoprire a suo padre la forma mentis della vendetta pagana, e porterà alla purificazione di Inger nelle acque della fontana miracolosa. Al di là delle ciarle dei dogmi – sembra dirci Bergman -, al di là degli Dei pagani e del Dio cristiano, islamico, sportivo, sociale, c’è tutta una dimensione Altra, da conquistare alla coscienza. Oltre il Dio della fede, c’è Dio come ricerca perenne, incessante.
“Gli uomini vagano inquieti come tante foglie al vento per quello che sanno e per quello che non sanno.”
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