Quattro donne sospese in una grande villa di Stoccolma, agli inizi del 1900.
Agnese sta morendo di cancro, la sua gioventù è travolta dal dolore, accanto a lei ci sono le sue due sorelle Maria e Karin, e Anna, la governante.
Maria è bella, sensuale, ma dietro il sorriso nasconde la leggerezza del vuoto.
Karin è forte, severa, ma nutre rancore per esistenza e genere umano, il suo corpo è torturato dall’arido matrimonio che la lega a un uomo molto più vecchio, ha il disgusto per ogni contatto fisico.
Anna è sola, ha da poco perso la sua bambina e conosce la comprensione del dolore.
"La moribonda, la più bella, la più forte, la più servizievole", definisce lo stesso Bergman, costruiscono, tra i presagi di morte, le atmosfere più terribili e agghiaccianti del genio svedese.
C’è il silenzio, tra Karin e Maria solo parole non dette ma tanta rabbia, acredine reciproca.
C’è la tremenda morte di Agnese, straziata da urla continue e circondata da ricordi impossibili; il suo unico conforto è la cristiana pietà di Anna, capace di amore e sussurri contrapposti alle grida indifferenti delle due sorelle.
C’è la fede, Agnese già morta appare di nuovo, forse implorando un atto d’amore, incontrerà l’impaurito rifiuto delle sorelle e l’abbraccio di Anna.
C’è l’addio, più gelido della morte. Karin e Maria, dopo l’esequie liquidano Anna con qualche banconota e si dividono, la loro totale distanza sembra intendere che non si rivedranno mai più.
Alla fine c’è anche il ricordo, si libera nell’aria da solo, uscendo dal diario di Agnese, e prende vita: è un pomeriggio felice, assolato, quello che le tre sorelle e Anna riunite insieme, trascorrono in giardino, è un giorno sereno, in una purezza visiva che solo il cinema di Bergman può esprimere.
Ogni fotogramma sembra un antico mosaico che si costruisce, svela l’incomunicabilità umana e poi improvviso si dissolve nell’accecante rosso sangue di interni e fotografia, come se tempo e spazio non s’accorgessero l’un dell’altro. |
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