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Tornando a casa dalla villeggiatura, due sorelle, Ester ed Anna, sono costrette a fermarsi in un paese sconosciuto. Infatti Ester, alcolizzata e malata di petto, è in preda ad una grave crisi del suo male. Il contrasto psicologico tra le due sorelle, già preesistente, esplode in questa occasione in forma assai drammatica, e ne è innocente testimone Johan, il figlio decenne di Anna. Quest'ultima reagisce all'esasperato egocentrismo intellettuale della sorella concedendosi un'ennesima, sordida avventura con uno sconosciuto. Quest'episodio provoca la rottura definitiva fra le due donne. Dopo un drammatico colloquio, Anna abbandona nell'albergo la sorella morente e con Johan riprende il viaggio verso casa. Prima della partenza Ester affiderà al nipotino un biglietto contenente alcune parole che daranno, forse, la chiave del dramma umano. |
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"Il bello non è che il principio del terribile."
(R. M. Rilke)
Il silenzio è il terzo film della trilogia (composta da Come in uno specchio e Luci d’inverno) dedicata da Bergman al Dio (assente), a Dio in quanto assente. Scrive Bergman, marcando l’identità di “trattato a-teologico” dei tre film: ”Trattato di una riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata. Luci d’inverno: certezza messa a nudo. Il silenzio – il silenzio di Dio – la copia in negativo. Perciò formano una trilogia.” Un cammino contrario motu: dalla rivelazione, seppur dolorosa, della folle esistenza di Dio – in Come in uno specchio -, al suo silenzio, al vanus flati dei de Il silenzio. Ma non si deve equivocare tale “cammino di riduzione”, conclamando Bergman campione dell’ateismo esistenzialista. Trattasi, invece, di una ricerca che non giunge a conclusioni univoche (ateismo, agnosticismo, fede), ma che ribadisce la sua dolorosa incompiutezza quale “ricerca incessante”, un vagare nomade sulle tracce vane di un Dio, un Dio che riscatti, almeno in parte, la sconvolgente insensatezza della vita umana. Bergman non “dimostra, ma mostra” il disagio umano d’esserci, d’essere gettati nell’estraneità di un mondo che disorienta, la vertigine schopenaueriana, il trauma originario del venire “alla luce”. Ed è la luce abbacinante del disorientamento, che illumina, ad inizio film, uno scompartimento ferroviario. Durante i titoli di testa si era ascoltato – ossessionato – il tic tac di un orologio: la “morte al lavoro” del tempo. Nello scompartimento ci sono due donne – che poi scopriremo sorelle – e un bambino. Tornano da una villeggiatura. Il caldo afoso fa sventolare, ansiosa, Anna, mentre Ester, l’altra sorella, osserva la noia grigia del piccolo Johan, il figlio di Anna, che scruta il paesaggio dal finestrino. Il bambino si mette poi a leggere un avviso scritto in un lingua sconosciuta; ne chiede il significato, nessuno risponde.
L’assenza di Dio, il suo silenzio in un mondo che non è più parlato dal verbo divino, un mondo che ha perso la sua vivente magia di segno, traccia, di una realtà oltre-terrena, rende per Bergman la stessa realtà incomprensibile, scritta in un idioma straniero. E’ il mondo – estromesso da Dio – ad essere “straniero”, estraneo all’uomo. O si tratta del contrario, dell’uomo che non riconosce più la lingua divina vivente nel mondo.
Il bianco e nero bergmaniano ritaglia le figure emergenti con plasticità impressionante, in una sorta di espressionismo fotografico raggelato, e con contrasti alla Mantegna. La recitazione degli attori, seppur classica, emerge straniata dallo stesso antinaturalismo delle immagini, e dall’aura di disagio che trasuda dalle scene. La vita è invivibile e allora anche l’arte sia irrespirabile.
Quel senso di irrespirabilità che noi avvertiamo durante tutta la sequenza nello scompartimento ferroviario: un accumulare tensione che mozza il fiato e che implode – in miracolosa coincidentia tra noi fruitori e il corpo del film – nel momento in cui Ester si sente male. Dal finestrino il piccolo Johan vede un treno che trasporta carri armati... la violenza dell’estraneità del mondo. I tre sono costretti a far scalo e a sistemarsi in un albergo. Anna ha caldo, decide di farsi una doccia, e chiede – in odor di incesto – al figlio di lavargli la schiena. Ester beve liquore, fuma, in una sorta di inquietudine autodistruttiva. Un’umanità che ha perduto la stella che la guidava, spersa nel disagio di chi non si orienta più. Ester continua a bere, Anna, infastidita, fa una giro per la città, entra in un cinema dove una coppia fa sesso impudicamente. Esce esterrefatta: anche per le strade gli umani sembrano disinteressarsi ai simili. Intanto le straniate immagini dei nani che passano per il corridoio dell’albergo hanno sfregiato, per sempre, il volto del principio di realtà del film, e la pellicola si avvia alla deriva dell’assenza del senso. Anna ritorna e racconta alla sorella Ester, di essersi concessa ad uno sconosciuto in un bar. Intanto il piccolo Johan gioca con la comitiva di nani, nella loro stanza. Lo vestono da bambina. Anna furibonda per la lite con la sorella esce dalla stanza, e trova l’uomo a cui si è già concessa. Lo bacia, entrano in una stanza e fanno l’amore. Un carro armato passa per la strada deserta. Johan racconta alla zia Ester del rapporto - spiato - della madre con lo sconosciuto. Aspra discussione tra le due sorelle, e, mentre i nani passano per il corridoio festosi, Ester cade a terra, colta da un malore. Sta morendo, confessa di aver sempre provato disgusto per gli uomini. Anna è pronta a partire lasciando morire da sola la sorella. Nel momento dell’addio Ester da una lettera a Johan. In una sorta di ossessione circolare, l’ultima sequenza ci mostra lo stesso scompartimento ferroviario: ci sono Anna e il figlio Johan. Johan apre la lettera datagli dalla zia: c’è una sola parola, “anima”. Il piccolo apre il finestrino ed espone il suo viso alla pioggia battente.
Cronaca di un’umanità che ha smarrito se stessa nella perdita della certezza dell’esistenza di Dio. In una società in cui alla magia di una natura parlante magicamente la lingua divina, si e è sostituito il funzionalismo idiota e aberrato della divinizzata produzione industriale, la violenza è dietro l’angolo... la guerra, i carri armati sono dietro l’angolo, indifferenti, freddi come gli individui che li guidano, come quelli che li fabbricano e quelli che li vedono seduti sulle poltrone riscaldate delle sale cinematografiche.
Capolavoro.
Tutto il resto è cinema. |