Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Pupi Avati Il pregio della semplicità

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a cura di Glauco Almonte
Luglio 2008, mentre andiamo a Montefiascone, dove sarà ospite all’Est Film Festival, Pupi Avati commentando il programma e gli ospiti della precedente edizione si lascia sfuggire una frase che racchiude in sé la sua idea di cinema. Buttata lì, in viaggio, può sembrare un semplice commento su un collega: “sì, bello il film, ma poi non ne ha fatti altri”. Nella semplicità dell’immagine del cineasta costantemente al lavoro si rispecchia la carriera di uno degli autori più attivi del cinema italiano, facilmente accostabile per mole di lavoro – e perché no, anche per la passione per la musica che non è emersa da un ottimo dilettantismo – a Woody Allen.
Chiede perché abbiamo insistito per proiettare proprio “Il nascondiglio”, e la risposta è perché è il suo ultimo film; “ah, già”, dice Avati, che nel frattempo ha già fatto altri tre film ed è in procinto di girare “Gli amici del Bar Margherita”, e non è colpa sua se due sono usciti prima de “Il nascondiglio” e il terzo, “Il papà di Giovanna”, è in standby per la Mostra di Venezia. Per non sembrare sibillino, Avati si spiega: “io nella mia carriera ho fatto circa 40 film, non ricordo nemmeno il numero esatto, e questo perché dopo ogni film mi hanno permesso di continuare; è necessario un riscontro positivo del pubblico e fare cinema, per me, è una questione di quantità. Se hai fatto tanti film vuol dire che il pubblico li ha apprezzati, quindi che sei riuscito, grazie al tuo lavoro, a trovare ogni volta i soldi per fare un nuovo film. Se ne hai fatti pochi puoi anche avere giudizi positivi dalla critica, ma vuol dire che al pubblico non sei piaciuto”. Quantità dunque non come mezzo, ma come cartina tornasole del lavoro svolto. E questo non necessariamente a danno della qualità.
Con “Gli amici del Bar Margherita” Pupi Avati fa due cose, non di più, nel nome di una semplicità che contraddistingue non solo i suoi film, ma anche i suoi discorsi, affascinanti grazie alla sua grande eloquenza ma mai intricati, fatti sempre allo scopo di risultare comprensibili per il maggior numero di persone. La prima è l’ennesimo passo in un sentiero che prevede una perenne voglia di espressioni nuove, o almeno diverse, pur mantenendo fisso l’obiettivo primario; in altri termini un ritorno alla commedia meno impegnata, allo svago che lo spettatore ricerca senza doversi confrontare ogni volta con messaggi più o meno espliciti. La maestria con la quale ormai costruisce ogni suo film, quale che sia il genere, lo pone necessariamente tra i pochi in grado di insegnare il cinema quale mezzo espressivo nei suoi aspetti tecnici, in barba a una critica che soltanto adesso, superati i settant’anni (quaranta dei quali dietro la macchina da presa), sembra allentare un po’ la presa. Si tratta di una commedia corale, genere dal quale si sta nuovamente allontanando in vista dell’ennesimo progetto, del quale per ora si sa ben poco oltre al titolo, “Il figlio più piccolo”.
La seconda operazione che compie Avati è quella autobiografica, lasciata in sospeso nel passato recente dopo “Ma quando arrivano le ragazze?”; Avati torna nella sua Bologna, e forse sarebbe il caso di scrivere “Sua” con la maiuscola perché è proprio la città “provinciale pur essendo capoluogo” che ha vissuto, la Bologna degli anni ’50 in cui il diciottenne Taddeo detto “Coso” è il giovane, futuro regista, che osserva il piccolo mondo attorno a sé senza riuscire a farne parte, quasi fosse fin da allora dall’altra parte della macchina da presa. E alla fine “Coso” dall’altra parte ci va davvero, anche se la macchina è semplicemente fotografica; anche qui Avati non si fa problemi a spiegare, in nome di semplicità e chiarezza: “quei dodici o tredici passi che fa “Coso” corrispondono ai 352 chilometri che separano Bologna da Roma”. Il tentativo di integrazione di Coso-Avati finisce in quel momento, niente più clarinetto, Bologna alle spalle: per Pupi non è semplicemente l’inizio della sua carriera, ma la fine della prima “fallimentare” carriera e l’inizio della seconda. Alle spalle, oltre alla Garisenda, si lascia un collega di quella sua prima carriera, tale Lucio Dalla, col quale finalmente, dopo 35 anni, torna a lavorare proprio per la colonna sonora de “Gli amici del Bar Margherita”. Se non conoscessimo Pupi, se non sapessimo che è già all’opera per nuovi e diversi progetti, sembrerebbe proprio la chiusura di un cerchio lungo una vita.
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