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"Gli amici del Bar Margherita" racconta, attraverso gli occhi di un diciottenne, la Bologna degli anni '50. Taddeo sogna di diventare un frequentatore del mitico Bar Margherita che si trova proprio sotto i portici davanti a casa sua. Con uno stratagemma, il giovane diventa l'autista personale di Al, l'uomo più carismatico e più misterioso del quartiere. Attraverso la sua protezione, Taddeo riuscirà ad essere testimone delle avventure di Bep, innamorato della entreneuse Marcella, di Manuelo, di Zanchi e di Sarti. |
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Pupi Avati, perennemente dietro la macchina da presa, pochi mesi dopo il successo de “Il papà di Giovanna” rimane a Bologna, la “sua” Bologna, nel senso che sceglie di raccontare la città e il tempo che ha vissuto. Dopo le recenti opere eterogenee e basate su spunti esterni alla propria vita (l’horror “Il nascondiglio”, ma anche la commedia “La cena per farli conoscere”) Pupi Avati, sempre in collaborazione col fratello Antonio, torna a guardare sui suoi passi e a raccontare un altro pezzetto del suo passato. Il regista, che sa bene quale sia stato il proprio percorso dopo aver lasciato Bologna, ritorna idealmente al momento antecedente il distacco, dando vita ad un protagonista diciottenne (Pierpaolo Zizzi) che, nella sua ansia di crescere e di farsi accettare da chi ha già un ruolo all’interno del microcosmo del Bar Margherita, li racconta uno per uno mantenendo uno sguardo dall’esterno fino all’ultimo momento. Gli amici del Bar Margherita rappresentano il club nel quale il giovane aspira ad entrare, finché non ne ha l’occasione e non si accorge di aver trovato ormai la sua dimensione in quello spazio sulla soglia, il corpo ancora esposto al vento sotto i portici e lo sguardo, e con esso tutta la sua attenzione, fisso dentro, a cercare di imparare, se non di capire, quella che ai suoi occhi è “la vita”.
Lungi dall’essere un gruppetto unito alla “Amici miei”, gli amici del Bar Margherita sono dei singoli casi umani che si ritrovano quotidianamente nello stesso posto, hanno imparato a conoscersi, hanno individuato le debolezze altrui e, senza accorgersene, hanno imparato anche a volersi bene; ma di loro non importa a nessuno, nessuno eccetto il giovane Taddeo, da tutti chiamato “Coso”. Questi “amici” vanno dal misterioso e carismatico Al – un Diego Abatantuono che quando incontra Avati ricorda di essere un attore – al folle Manuelo, interpretato da un Luigi Lo Cascio particolarmente divertito da questo ruolo così estraneo alla sua filmografia. Vanno ancora dallo sfigato Bep – Neri Marcorè, chi se non lui – a Gian, a Zanchi, a Sarti, tutte macchiette che si rivelano persone normalissime, accomunate dallo sguardo di Taddeo che le relega in una posizione privilegiata dove non c’è giudizio ma una riflessione comica ed amara.
Avati è ormai un maestro nel dare un ritmo piacevole e costante ai suoi film, dimostrando come si crei un prodotto di livello attenendosi a poche regole, senza mai cercare di strafare per dimostrare qualcosa che lui ha saputo dimostrare attraverso la propria continuità. E così anche un filmetto leggero e, a ben guardarlo, poco significativo può essere piacevole per passare un’ora e mezza al cinema, nel nome di uno svago sano e senza pretese di catarsi o di stravolgimenti interiori. Avatiano. |
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