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Giovanni Sermonti è uno psicoanalista che vive la sua vita fra i variopinti pazienti, lo sport e una normalissima famiglia composta dalla moglie Paola e i due figli adolescenti Andrea e Irene. La routine si spezza quando, in seguito ad un incidente in mare, il figlio muore. Padre, madre e sorella si perderanno fra dolore, freddo e solitudine per ritrovarsi e continuare inevitabilmente a vivere. |
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“La stanza del figlio” è quella stanza dove non si vuole più entrare.
Film attesissimo, soprattutto per il mistero legato a questa uscita che il regista di “Ecce Bombo” ha voluto mantenere totalmente segreta fino all’ultimo, come ha affermato, per preservare gli spettatori da una visione rovinata dalle mille chiacchiere che normalmente precedono una pellicola. E non ha tutti i torti visto che già dalla seconda visione o comunque dopo aver sentito parlare del film lo si guarda con occhio diverso fin dall’inizio.
Moretti si è impegnato totalmente alla produzione di questo film, trionfatore a Cannes, che da tempo voleva fare, impiegando ben tre anni (un tempo lunghissimo rispetto ai suoi abituali) per scrivere, girare e montare quello che è stato definito anche il film della svolta. E sicuramente il cambio nel cinema morettiano è evidente. Si abbandona il classico sarcasmo, la critica spietata della società, gli sfoghi personali e la vena politica dei vari lavori precedenti per approdare ad un’opera cinematografica di grande maturità e universalità, anche nella fotografia e nei movimenti di macchina, sullo sfondo di una Ancona appena accennata. Sì, perché Moretti questa volta centra il lavoro sul sentimento. Riesce in un’ora e mezza a condensare dolore, confusione, rabbia per il distacco e amore in maniera indiscutibile con un’opera pervasa da questi sentimenti dall’inizio alla fine.
Tutto il raccontato è reale, dalla convivenza familiare alle situazioni che ci si trova ad affrontare nei momenti della morte di una persona cara, come la straziante scena della chiusura della bara che, dopo tutto il dolore già patito, viene vissuta quasi inconsciamente.
Gli attori principali sono molto bravi e anche i vari pazienti e commessi con cui si incontra Giovanni, offrendoci una carrellata di ottimi attori italiani. Di Moretti rimane comunque il modo di recitare, o meglio di essere se stesso, anche se questa volta forse ci sarebbe potuto essere anche qualcun altro sullo schermo, a sottolineare ancora l’universalità del film, e anche perché un Moretti focoso fra le lenzuola o che piange straziato non lo riconosciamo.
Il messaggio è diretto: il dolore è qualcosa che va affrontato e accettato, senza respingerlo o ignorarlo, inevitabile per l’uomo e mai pienamente superabile, ci si abitua solo pian piano a conviverci, ma va bene così. |
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