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26 novembre 1956. Fidel Castro parte verso Cuba con un gruppo di un'ottantina di ribelli. Uno di loro è Ernesto Guevara, un medico argentino a cui presto verrà attribuito il soprannome 'Che'. Il gruppo ha una finalità precisa: abbattere il regime dittatoriale di Fulgencio Batista sostenuto dagli americani. Il Che si dimostra da subito un combattente abile particolarmente versato nell'arte della guerriglia. Diventa così sempre più famoso tra i suoi compagni e tra la popolazione per la sua determinazione mista a una profonda passione per i più deboli e sfruttati. Ben presto diventerà un comandante e, con la vittoria dei castristi, uno dei miti di quella rivoluzione. |
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“In una rivoluzione, se è vera, si vince o si muore”
Ernesto Rafael Guevara De la Serna è morto (anche la Rivoluzione non sta tanto bene) eppure il mito del Che sembra immortale.
In questo triste mondo globalizzato, orfano di ideali e di esempi da seguire, il suo ricordo continua ad emozionare, facendosi mito e leggenda, simbolo e icona. Raccontarne la vita è impresa ardua e sfida affascinante, e Soderbergh prova a farlo con coraggio, cercando fino all’estremo di esaltarne la parte più umana, carnale, quasi anti-eroica. L’idea di scivolare negli stereotipi o nelle banalità si riflettono nella scelta di non affondare il colpo, di non privilegiare un punto focale definito: la fotografia di Soderbergh è una fotografia non iconografica, non commerciabile come la foto del 'Che' stampata su milioni di magliette, che ha tempi di sviluppo inevitabilmente lunghi (ma comunque irrimediabilmente brevi visto il tema affrontato) e che non esalta le emozioni, quanto le azioni e i pensieri del 'Che', interpretati magnificamente da Benicio Del Toro, meritatamente vincitore della Palma d’Oro a Cannes. Un’interpretazione di gran lunga più passionale di quella di Gael García Bernal ne I diari della motocicletta, che però compensa un minore coinvolgimento emotivo rispetto, appunto, al film di Walter Salles. Rimanendo in bilico tra celebrazione e introspezione, tra biopic e documentario, Soderbergh riesce ad emozionare solo a momenti, complici anche i continui salti temporali e una voce fuori campo che spesso e volentieri condizionano l’intensità del racconto. Resta poi il dubbio se la scelta di dividere in due un film probabilmente concepito come opera unica, sia la scelta più giusta, anche se l’idea di un continuum narrativo si sarebbe scontrato necessariamente con logiche distributive e non solo. (Quante persone sarebbero disposte a passare quattro ore ininterrotte in una sala cinematografica?). Eppure il giudizio di un progetto ambizioso come questo, peraltro in attesa che esca Che – Guerriglia, travalica innegabili difetti scenici e di messa a fuoco: l’omaggio di Soderbergh all’ultimo grande rivoluzionario della Storia, un normale borghese che tentò di liberare il mondo dalla logica di un sistema economico spietato e spesso immorale nel quale lui stesso era nato, è un atto che merita rispetto. |
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