Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Berlino 2008 09/02: Erick Zonca, la libertà dell'indipendenza

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a cura di Andrea Olivieri
Tilda Swinton mattatrice alla Berlinale. In attesa di "Derek", il documentario su Jarman che la porterà nella sezione 'Panorama' la prossima settimana, l'attrice inglese candidata all'Oscar per "Michael Clayton" impressiona al 58esimo festival per camaleontismo e umanità di interpretazione. Diretta dal francese Erick Zonca, noto al pubblico per "La vita sognata degli angeli", la Swinton è protagonista del film drammatico "Julia": viaggio agli inferi di una donna alcolizzata e priva di affetti, che restituisce un senso alla sua vita soltanto grazie a un rapimento fallito e al rapporto che ne scaturisce col bambino che teneva in ostaggio.
"Il suo è un caso un po' particolare - spiega l'attrice - ma non la considero così diversa da me. Ad altri livelli, ma nessuno può sottrarsi alla lotta fra le tante spinte che ci guidano nell'agire". La Strega Bianca delle "Cronache di Narnia" fa poi anche sfoggio di humour e verve: "Come alcolista sono una catastrofe perché non bevo neanche un goccio. In compenso la parte mi è riuscita benissimo, perché è tutta la vita che faccio finta di essere ubriaca!".
Diretto e sceneggiato dallo stesso Zonca, il film è tutto incentrato sulla figura della protagonista. Sboccata, rabbiosa e sfiduciata verso il resto del mondo, Julia tira a campare fra una sbornia e l'altra senza più speranze e progetti. A credere in lei è rimasto soltanto l'amico Mitch e proprio grazie a lui inizierà a frequentare il gruppo di autoaiuto che le cambierà la vita. E' qui che una giovane sudamericana la coinvolge nel suo folle piano: rapire il figlio, che il nonno miliardario le ha strappato, per poi ricattarlo e farsi pagare un lauto riscatto. "Volevo un'attrice molto fisica - racconta Zonca - una che parlasse col corpo come ha fatto Tilda, la prima volta che ci siamo incontrati". Protagonista indiscussa è infatti la parabola senza speranza che il personaggio della Swinton sembra imboccare. Del tutto maldestra e impreparata, si getta in una folle impresa che presto le sfuggirà di mano, costringendola a una rocambolesca fuga in Messico da polizia e malviventi. "I temi sono talmente scomodi - spiega il regista - che all'inizio nessuno voleva produrre il film. Lo giudicavano troppo doloroso e rifiutavano la sceneggiatura, prima ancora di arrivare alla fine. Quello che invece ho cercato di fare è stato l'esatto contrario: mettere nella storia più energia vitale possibile".
Il tempo e il dolore di un lutto e una madre che non vuole piu' parlare: è il tema del film "Lake Tahoe" presentato oggi in concorso al Festival di Berlino. Il regista messicano Fernando Eimbcke emoziona per il suo linguaggio semplice e per il paesaggio sudamericano arido e desolato ma ricco di umanità. Poi il protagonista decide di scappare, ma la fuga è interrotta da un incidente. Il tempo continua a scorrere ma ruota intorno a se stesso. E saranno propri gli incontri di Juan a dare ritmo alla pellicola.
Prostituzione, tratta dei bambini, pedofilia: prosegue il Concorso, e a scuotere la Berlinale nella giornata di ieri è stato l'indipendente "Gardens of the Night": ritratto di un'America allo sbando e senza speranze, con un cameo di John Malkovich nel ruolo di un assistente sociale. Scioccante odissea di una bambina qualunque, strappata alla famiglia all'età di 8 anni e da allora catapultata nell'inferno del sesso a pagamento, il film di Damian Harris si propone come denuncia di un dramma di proporzioni inimmaginabili. Un fenomeno che i titoli di coda quantificano nelle allarmanti cifre di 1,3 milioni di minori, che oggi vivono per le strade degli Stati Uniti. Un esercito di giovanissimi, per il 60% vittime di violenze o abusi che, sempre in base alle stesse statistiche, subirebbero anche un adolescente americano su tre fra le ragazze e uno su sette fra i maschi.
Forza della denuncia e pugno allo stomaco sono nella storia della piccola Leslie e dell'amico Donnie: volti sconosciuti per il nostro cinema, che il figlio di Richard Harris trasforma in compagni di reclusione e sventura. Giovanissimi agli antipodi, figli della borghesia ricca l'una e del proletariato nero l'altro, che il destino spinge prima tra le grinfie di un pedofilo e poi a vendersi sul marciapiede. Niente immagini hard, il regista affida lo shock alla violenza appena accennata e al realismo delle riprese. Fotografia sgranata e pellicola sporca sono al servizio dell'impietosa radiografia di un sottobosco di 12enni già avvezzi a droga e prostituzione, transessuali preadolescenti. Queste le amicizie e questo il destino cui il film condanna i protagonisti. Non basta liberarsi dal giogo degli aguzzini, è il cupo messaggio di "Gardens of the Night": la violenza sui minori equivale a una condanna a morte.
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