Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Venezia 2008 Presentazione

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Intervento del Direttore della 65. Mostra, Marco Müller:

"Ci siamo proposti, per questo primo anno di un quadriennio di Biennale Cinema (per questa 65. Mostra), di smettere, una volta per tutte, di guardare al cinema come a una bussola infallibile. Non volevamo più chiedere al cinema di salvarci da un presente problematico, ambivalente, ambiguo: toccava a noi, invece, starci dentro, non saltare i nuovi problemi (artistici e oltre) che pone l’epoca in cui ci è dato vivere. Un’epoca contraddistinta da una profusione sempre rinnovata d’immagini. Senza che, in fondo, ci sia poi più tanto da vedere.

Se il cinema non è (quasi) più il cinema, questo può rivelare anche aspetti la cui positività non sia immediatamente percepibile. Il cinema è diventato un insieme di idee, di forze, di proprietà, di capacità, di miti, di storie. E, soprattutto, si è trasformato in un nuovo modo del pensiero, originale e potente. Così che, per fortuna, quando ci si mette a inseguire quello che, al cinema, è venuto dopo il moderno, non si è mai al riparo dal pericolo del contagio, dal rischio dell’ibridazione.

Per più di un secolo il cinema è stato il mezzo espressivo più fecondo, attuale, pieno d’invenzione; uno tra i segmenti costitutivi della modernità (mai: pezzo di ricambio, sostituibile, intercambiabile). La parte del cinema moderno che abbiamo vissuto come necessaria, quasi definitiva, ha avuto una bella progenitura. La quale, a sua volta, ha avuto la pretesa di durare, di non scomparire beneducatamente una volta passato il proprio momento (come invece hanno fatto tanti movimenti delle arti visive, dell’architettura, della letteratura); ha preteso, invece, di essere addirittura, del cinema, la lezione assoluta, la profondità, l’essenza. Ma l’idea di un cinema moderno che duri più di un mezzo secolo è un vero ossimoro.

Finché è durata, la modernità storica del cinema ha assunto al suo interno tutto quello che era contemporaneo, così che il contemporaneo ha finito per aspirare a poter combaciare con un ideale di “moderno”. Ora che la modernità è pronta per trovare il suo posto nelle genealogie e nelle periodizzazioni, la nozione stessa di “cinema moderno” ci scoraggia - tanto l’abbiamo spremuta, triturata per tirar fuori quello che ancora ci poteva dare di utile. E le nuove classificazioni? Cinema “contemporaneo”: e di cosa? Il termine, comunque, non designa nulla di stabile o già solido.

Il cinema è anche divertimento, ed è senz’altro industria che organizza il divertimento (il vecchio aforisma di Malraux rimane ancora valido: il cinema, la prima arte inventata ex-novo, è comunque industria). Tuttavia, non è più lo spettacolo di massa dagli effetti incantatori, in grado di rinnovare di continuo la propria mitologia e, più di rado, le proprie opere di riferimento. Molti dei film che si producono, infatti, stancano invece di divertire, promettono allo spettatore lo sfruttamento massimo di tecniche estetiche (effetti: di sceneggiatura, recitazione, regia, macchinario visivo), ma lo lasciano poi frustrato, affamato di quell’immaginario e di quelle illusioni che il cinema ha, in altre epoche, saputo garantirgli, e di cui gli fornisce invece ora simulacri congelati (qualcuno ha forse lasciato l’aria condizionata accesa, e troppo alta…).
Chi ci porterà allora verso nuove (altre) distese, inverosimili continenti?

Non sono certo inedite o sorprendenti, ma almeno due indicazioni il programma della 65. Mostra le può indicare.

(a) Se si va oltre la riflessività, la negatività, la storicità, alcune risposte alla fine della modernità e a quella dei “grandi racconti” le si possono forse trovare riposte nei mondi (a Sud, a Oriente) dove la “modernità necessaria” non è mai arrivata per davvero.

(b) Anche nei mondi a noi più vicini (a Occidente, al Nord), non è scomparsa la passione del nuovo: non certo la novità a fini pubblicitari, bensì l’invenzione, quella firmata, che ha un autore e non scomparirà dunque con il dissolversi dell’ennesima “nuova” moda. Un autore di quelli che possono ancora offrirsi il lusso di essere intempestivi – credono nel nuovo ma hanno la consapevolezza che il futuro è un’arte della trasmissione (e, a volte, della tradizione).

I punti di arrivo (provvisori) del nostro lavoro sono questi.

Abbiamo riconfermato l’avvenuta inutilità della consacrazione dell’Arte (cavallo di battaglia della Mostra sin dalla fine degli anni Trenta) e della Geografia (l’inutile ecumenismo di una Mostra “atlante delle nazioni e del pianeta”). Si tratta, invece, di usare ora la conoscenza del cammino percorso negli anni precedenti per fornire nuove piste, contribuire a rinnovare i sistemi di mappatura.

Per realizzare una 65. edizione pluralistica, e dunque volutamente contraddittoria, non potevamo che privilegiare, come collante che tenesse insieme le opere, l’intuizione delle verità che in esse si celavano.

Purezza, omogeneità, assolutezza ci sono apparse impraticabili (perchè improduttive), abbiamo dunque perseguito l’autenticità attraverso il suo contrario.

La qualità ha contato, ma ancor più la non-identità dei fenomeni espressivi: la libertà narrativa; lo splendore delle forme; il piacere schermico; la sfida al “comune senso del reale” - la continua messa in discussione dell’idea di fiction (o di non-fiction…) e dei limiti del punto di vista consentito allo spettatore.

Mischiare le carte ha voluto dire: prendere rischi inattesi, provare soluzioni non sperimentate; ricapitolare le fasi recenti del “nuovo” al cinema per rivalutarle, risituarle nei territori a cui appartengono (ma senza pertanto proteggersi le spalle con l’ideologia).

Grazie all’articolazione di proposizioni e opzioni, modelli e schemi – anche di genere (non rinunciamo agli appuntamenti di mezzanotte) – ha ripreso forza la possibilità di rivolgerci a gruppi diversissimi di spettatori, particolarmente disponibili a esplorare, riflettere, godere delle diverse traiettorie del programma. Ad essi dobbiamo anche quest’anno fare delle domande piuttosto che fornire delle risposte.

Come risultato di queste scelte di programmazione, ci piace immaginare la “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica” come luogo di più ricche individualità, che si possano formare non per assimilazione ma per comprensione, attraverso lo sguardo attivo e il confronto. L’avvenire della Mostra, all’ombra del nascente nuovo complesso di sale, ne ha senz’altro bisogno."

Marco Muller
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