Darren Aronofsky, regista già di culto ben prima di questo suo quarto film, ha trovato qualche momento di lucidità nel realizzare “The Wrestler”: la sua potenza espressiva, sempre incentrata sul piano visivo, trova un’imprevista canalizzazione nelle forme ragionate di questo film drammatico. Una sorpresa dietro l’altra, e la giuria presieduta da Wim Wenders (e composta da Yurij Nikolaevic Arabov, Valeria Golino, John Landis, Lucrecia Martel e Johnnie To) ne ha tenuto conto: è stato Mickey Rourke, inatteso protagonista, e non la dimestichezza di Aronofsky con il computer, ad ipnotizzare i giurati. Leone d’Oro annunciato fin dalla prima visione riservata alla stampa, premio meritato che, dopo le sorprese degli anni passati, non incontra obiezioni.
Come ogni concorso dei maggiori festival mondiali, i premi sono tanti e più o meno equivalenti, quanto a prestigio, così da accontentare più d’un concorrente (a furia di mandar via la gente a mani vuote si rischia di non trovare più partecipanti di spicco): Leone d’Argento alla regia e Premio Speciale della Giuria hanno forse meno appeal, ma gli addetti ai lavori ne conoscono il significato; e così i vincitori sono tre, assommandosi ad Aronofsky il russo Aleksej German Jr. e l’etiope Haile Gerima, rispettivamente d’Argento e Leone Speciale. Anzi, sono proprio il loro due film, “Paper Soldier” e “Teza”, i protagonisti della premiazione: Gerima sale sul palco due volte, la prima per l’Osella per la miglior sceneggiatura; l’altra Osella, quella per la fotografia, va ai collaboratori di German Jr., Alisher Khamidhodjaev e Maxim Drozdov. Più scontato il Leone Speciale per l’insieme dell’opera, assegnato a Werner Schroeter, indubbiamente il regista dal maggior pedigree, unico aspirante a questa sorta di premio alla carriera.
A proposito di premi alla carriera, è doveroso fare un passo indietro e tornare alla serata di venerdì, quando Adriano Celentano ha consegnato il Leone d’Oro alla carriera ad Ermanno Olmi. Un premio dal significato ambiguo, che onora registi presumibilmente al termine della loro carriera, e che puntualmente si “ribellano”, con garbo, così come ha fatto Olmi: “non mi sento arrivato, ho ancora molto da dire; anzi, mi sento ancora un’apprendista che deve continuare ad imparare”. E per dare credito a questa dichiarazione d’intenti, Claudio Cappon, direttore generale RAI, ha svelato il progetto sulla vita di Gesù a cui Olmi sta già lavorando per l’azienda di Stato.
E veniamo, alla fine, a quello che è stato il vero successo italiano in una Mostra che era nata sotto le insegne tricolori per i quattro film selezionati: il migliore era quello di Pupi Avati, e proprio “Il papà di Giovanna” ha ottenuto il giusto riconoscimento. Giustissimo, per Silvio Orlando, trasformatosi negli ultimi anni da spalla a protagonista, rivelandosi uno tra i migliori e tra i più preparati attori del nostro panorama: Coppa Volpi per lui, così come per Dominique Blanc, protagonista de “L’Autre” di Patrick Mario Bernard e Pierre Trividic. L’attrice emergente che può fregiarsi del Premio Mastroianni è infine Jennifer Lawrence, che in “The Burning Plan” è riuscita a non sfigurare accanto a Charlize Theron e Kim Basinger.
Nelle altre sezioni spicca il Leone del Futuro, premio assegnato alla miglior opera prima dalla giuria presieduta da Abdellatif Kechiche (in concorso l’anno passato con “Cous Cous”), che ha permesso a Gianni Di Gregorio di sollevare l’unico Leone italiano con il suo “Pranzo di Ferragosto”, in barba alle quattro opere della selezione ufficiale.
Tutti più o meno contenti, e l’edizione numero 65 della Biennale può andare in archivio; ma un festival dell’importanza di quello di Venezia non può far finta di nulla e ricordare soltanto i flash e i sorrisi dell’ultima cerimonia, ma deve riflettere sul livello insoddisfacente della qualità dei film selezionati per il concorso, al quale fa da contrappeso troppo leggero il coraggio mostrato nelle sezioni Orizzonti e Giornate degli Autori. C’è una probabilità alta che nel 2009 Venezia non soffrirà della concorrenza di Roma, il cui progetto di austerità al momento sembra confermato: un po’ troppo poco, come programmazione, aspettare le disgrazie altrui. Ma come dice un detto cinese, il Festival di Venezia, dall’alto dei suoi due terzi di secolo di storia, si è seduto per qualche anno sulla riva del fiume, in attesa di vedere se il cadavere del suo giovane nemico sarebbe passato, trasportato dalla corrente. Chi ha storia può permettersi di prendere fiato. Pubblico e critica, che vivono nel presente, non vedono l’ora di tornare ad applaudire per qualcosa di più che per convenzione. |