Un soggetto originale nel suo bilanciamento tra drammaticità e grottesco è stato tramutato in una sceneggiatura altalenante, che si adatta su un terreno sicuro proprio quando ci si aspetterebbe quel tocco di anarchia narrativa e stilistica propria dello stesso Hesher. I risvolti drammatici della vicenda sono sempre molto realistici, ma poco trasportanti, mentre i toni della commedia nera sono decisamente più azzeccatii. Mi aggiungo alla lode per Joseph Gordon Levitt, non nuovo a ottime prove nel cinema indie, da 'Mysterious Skin' a '50 e 50'.

Tutto giocato sul rapporto umano-diverso, si distingue per humor e ritmo idiavolato, con alcuni personaggi di contorno davvero esilaranti, dalle streghe addette alla pulizia agli zombi tutto fare. La storia è molto semplice, forse un pò esile, adatta sostanzialmente ad un pubblico di giovanissimi, ma sempre godibile e con dosate citazioni cinefile. Mezzo voto in più per la battuta su Twilight

Accettando le logiche produttive americane, Park riesce comunque a mantenere il suo marchio di fabbrica, confezionando un prodotto tecnicamente originale (regia e montaggio), figurativamente perfetto. La storia è ben scritta (ma prevedibile verso la fine, con conseguenti cali di tensione), il cast offre una prova di spessore, dalla Wasikowska, gelida nel descrivere il pericoloso cambiamento di prospettiva delle cose e dei pensieri tipici di un età di transizione, alla Kidman, capace di evitare tutti i clichè del suo personaggio, fino al carismatico e seducente Matthew Goode.
Come auspica Alessia, speriamo che questa operazione sia un possibile canale per avvicinare il pubblico alle vette artistiche del cinema orientale.

Concordo sostanzialmente col commento di ale. Purtroppo la prevedibilità della faccenda si inizia a percepire troppo presto e da un opera prima ci si poteva aspettare qualche elemento un pochettino più audace. Comuqnue, il ritmo tiene, la scrittura è scorevole e gli attori azzeccati.

Il grande difetto è, più che la tanta carne al fuoco, la mancanza di un forte elemento drammatico che lo renda particolarmente memorabile e originale.

Da vedere perhcè coniuga con una storia interessante il thriller di puro intrattenimento e il film politico.

Una delle massime aspirazioni per un cineasta è fare un film che sia inequivocabilmente lo specchio del suo tempo. Sorrentino ci riesce, come al solito, in grande stile, nonostante nell’ultima mezz’ora forzi troppo la mano, con bruschi cali di coinvolgimento.
Impegnato, originale, lucido, grottesco, affascinante, ‘La grande bellezza’ deve buona parte del suo successo a Toni Servillo, colonna portante del nostro cinema.

Humor nero britannico di buona qualità, intelligente e originale, piacevolmente tragico.

Col suo “The Sessions”, Ben Lewin porta all’attenzione del pubblico un tema delicato e poco conosciuto, vero tabù in Italia. Lo fa attraverso una regia semplice, lasciando che la storia si racconti da sola, con ironia e leggerezza, senza patetismi o ricatti emotivi. Magnifico John Hawkes, che ci illude sulla finzione della storia, bravi anche Helen Hunt (candidata all’Oscar come non protagonista) e il solito William H. Macy, saggio e simpatico.
Cito Helen Hunt: “Spero che questo film aiuti a sentirsi a proprio agio nella pelle che si ha. E a riflettere sulla bellezza dell’anima”.
Nota: vivamente consigliato in lingua originale.

Edgar Wright si distingue per l’indubbia capacità di giocare con gli stereotipi, ridicolizzandoli, e di fondere più generi (da ricordare, oltre all’esplosiva colonna sonora, alcune brillanti sequenze d’azione, alternate a momenti di sincera umanità dei personaggi). Il risultato è un minestrone pop/pulp/nerd, che provoca, allo spettatore ben disposto e consapevole (il flop mondiale al botteghino conferma come, purtroppo o per fortuna, sia un film per pochi), quel piacevole stupore infantile citato da Pangur.