Il secondo episodio della nuova saga de Il Pianeta delle Scimmie riesce a essere convincente come il suo predecessore, riuscendo a tenere alta l'attenzione per tutta la durata, combinando quasi perfettamente le esigenze spettacolari del blockbuster senza tralasciare la profondità dei personaggi. Gli effetti speciali della motion-capture sono sempre più incredibili ma al servizio della storia e nonostante questa si faccia prevedibile dalla seconda meta', lo spettacolo e' comunque garantito. Molto della riuscita e' da attribuire a Serkis, fantastico attore che riesce a dare spessore e umanità a un'infinita' di personaggi.

Strano che un regista classico e lineare come De Sica abbia scelto di portare sullo schermo la storia di Toto' il Buono scritta da Zavattini. Il risultato e' un inno alla felicita' e al sorriso ma sicuramente non e' tra i lavori migliori dei due maestri del Neorealismo, presente nel film solo come ambientazione nel quartiere dei senzatetto, forse a causa di un buonismo a dir poco eccessivo e di una trama incerta, con l'ultima mezz'ora usata per sfoggiare effetti speciali assai invecchiati. Si salva la voglia di riscatto sociale che permea nella prima parte e l'atmosfera fiabesca che anticipa il realismo magico di Fellini.

Quello che all'apparenza può sembrare un classico film di denuncia, e' in realtà uno struggente racconto sulla fine dell'adolescenza e lo scontro con il mondo degli adulti. Il processo per stupro in un piccolo paese dell'Alabama nei primi anni 60 ai danni di un giovane di colore getta i bambini protagonisti a confrontarsi con la violenza e l'odio degli uomini. Scritto benissimo da Horton Foote, il film descrive con molto realismo il clima razzista del profondo Sud ma anche l'universo giocoso dell'infanzia in quello che rimane un magnifico esempio della migliore narrativa hollywoodiana. Ottimo il cast, su cui svetta un grande Peck: da applauso il suo monologo alla giuria e la silenziosa uscita dall'aula.

Una divertente e originale commedia che Spielberg dirige con ritmo, ambientata interamente nel terminal JFK. L'odissea di Victor Navorsky e' una tragicomica serie di incontri, scoperte e rivelazioni che per le incomprensioni culturali trasformano l'enorme terminal in uno spazio quasi claustrofobico, come una prigione. Un film che mischia abilmente i canoni classici della commedia (equivoci, incomprensioni linguistiche) con un'amara riflessione sul sogno americano. Il coinvolgimento perde soltanto nella seconda parte con la storia d'amore scontata e prevedibile, nonostante Tom Hanks si dimostri un'interprete eccellente per il ruolo (la cui strana parlata non viene rovinata dal buon doppiaggio italiano).

Ci sono più pippe che poppe in questo fiacco Tornatore, che cerca di rendere poetiche e liriche le masturbazioni compulsive di un adolescente folgorato dalle curve di Malena, ma tralascia tutto il resto. Virtuosismi, dolly e sequenze oniriche (come le inutili ricostruzioni di pellicole d'epoca) non risolvono una sceneggiatura debole che, invece di rileggere in chiave moderna l'erotismo in tempo di guerra, si concentra solamente sull'abbondante balcone e sul sontuoso fondoschiena della muta Bellucci, ai quali poteva almeno riservare un bel primo piano.

Al suo quinto film da regista Clooney si ispira ai classici dell'intrattenimento bellico, da Il Treno di a La Grande Fuga, senza rinunciare a confrontarsi con la Storia con il quesito: vale la pena morire per l'arte? Se i fatti narrati sono interessanti, lo e' meno il film: il regista cade troppe volte nel dilettantesco, i personaggi vengono ridotti a caricature senza spessore, il tono da commedia banalizza il tutto e il Clooney-attore si lascia andare troppe volte a discorsi/sermoni che rallentano il già catatonico ritmo della pellicola. Una bella storia che meritava una trasposizione migliore sul grande schermo.

La Bigelow riesce a combinare perfettamente la tensione del thriller con la filosofia del surf, non trascurando anche lo studio di due personaggi opposti: un guru delle onde che rapina banche e un poliziotto infiltrato che rimane affascinato dall'oceano. Un'amicizia impossibile, la sfida continua con la morte, la difficile linea che separa la legge dal crimine sono i temi che la regista affronta con bellissime riprese acquatiche e adrenaliniche sequenze d'azione (tra cui una complicatissima sospesa nel vuoto). Point Break rimane uno dei migliori film d'azione degli anni '90.

Nel remake del fantastico Robocop del 1987 rimane ben poco dell'originale: la cattiveria e l'umorismo nero che facevano del film di Verhoeven un cult sono praticamente nulli, a favore di una spettacolarità scontata. Se la regia nella prima parte azzecca qualche sporadica sequenza sul rapporto uomo/macchina (la scena in cui viene mostrato ciò che resta del corpo di Murphy), la sceneggiatura tende a banalizzare il tutto, concentrandosi sulle sparatorie dall'estetica da videogame che piacciono tanto al pubblico adolescente. Anche se la nuova estetica del robot lo fa "più figo" (un mix tra il tessuto di Batman e la tutina aderente di Diabolik) e gli effetti speciali non sono in stop motion, il nuovo Robocop fa ruggine subito dopo la visione.

Jarmush rivisita con una sceneggiatura semplice e mai scontata il gangster movie, condendolo col senso dell'onore delle tradizioni orientali (come il giuramento del samurai che scorre sullo schermo) e col solito humor sottile, prendendosi gioco dei cliche', a partire dagli stanchi capi mafia che guardano cartoni animati (tra di loro, il mitico Henry Silva, emblema del cattivo nei poliziotteschi italiani). Benche' fatichi nella prima parte a ingranare, azzecca ogni battuta, come gli improbabili discorsi tra il protagonista e il gelataio francese, mantenendo un'atmosfera surreale densa di humor nero.

Pensavo che peggio di Olympus has Fallen non si potesse fare. Ma ora mi devo ricredere. Emmerich si conferma il regista per i film più fracassoni e insensati, infatti il suo ultimo lavoro e' adatto solamente a chi vuole passare due ore di puro azzeramento di materia grigia. Obama che spara ai terroristi come spalla di Rambo, una dozzina di dinamitardi che senza problemi irrompe nel luogo (che dovrebbe essere, in teoria) piu' protetto della terra e che si fanno infinocchiare da una bambina sono solo alcune delle chicche che promette White House Down. A quanto pare il mio pollaio ha un sistema di sicurezza migliore di quello della Casa Bianca.

Uno dei più bei saggi sul cinema, sul mestiere di fare film, di dirigerli, interpretarli o semplicemente guardarli, ma anche uno spietato ritratto del lato più nascosto di Hollywood: di fatto, Viale del Tramonto è la storia di una stella ormai dimenticata, costretta a vivere nel passato. Il racconto di Norma Desmond è tra i più tristi che lo schermo ha mai raccontato e nonostante il ritmo del film sia quello di una commedia, l'atmosfera decadente ricorda maggiormente un horror. Una brillantissima sceneggiatura e un trio d'attori in stato di grazia per un capolavoro che non tramonterà mai.

La prima parte e' perfetta: presenta un film storico di impegno, ben scritto da Robert Bolt (collaboratore di David Lean) e splendidamente illuminato da Chris Menges (col sole che penetra tra gli alberi della foresta pluviale sudamericana), due protagonisti ben inseriti e scene di rara suggestione (il sacerdote crocefisso gettato nella cascate dell'Iguazu, padre Gabriel che suona l'oboe di fronte agli Indios). Nella seconda, invece, il ritmo cala e la trama si fa meno originale e incalzante, esplodendo nel tragico epilogo. Ma la vera ragione che spinge gli spettatori a vedere Mission e' la colonna sonora di un ispiratissimo Morricone, grandiosamente epica e allo stesso tempo incredibilmente interiore.

In linea con il nuovo genere che "ripropone" vecchie fiabe con attori in carne e ossa, Maleficent cerca di dare una storia alla cattiva de La Bella Addormentata. E' proprio il personaggio interpretato dalla Jolie l'unico che suscita un minimo di interesse, mentre il resto fa solo da contorno (con le insopportabili fate trasformate in un trio di rara cretinaggine). Niente che non si sia già visto in Alice in Wonderland, che scade totalmente trasformando la strega cattiva in una santa dotata di ali e corna e che rinnega completamente il classico d'animazione cui e' ispirato.

Buon film d'azione, sorretto da un soggetto interessante che sviluppa in maniera originale il tema del loop temporale. La sceneggiatura non risparmia anche qualche azzeccata gag sulla ripetizione all'infinito delle stesse situazioni giocando abilmente con il montaggio, mentre la regia riesce a rendere caotiche le sequenze di battaglia, con più di un debito verso il cinema fantascientifico degli anni 80 e dei film di Cameron e Verhoeven. Il ritmo tiene (specie nella prima parte) per un prodotto di genere che riesce a divertire ed a essere più originale di molti altri titoli analoghi.

Scott catapulta lo spettatore in mezzo alla guerra: Black Hawk Down e' con tutta probabilità la battaglia più lunga ed estenuante che si sia vista sullo schermo. Lo stile frenetico, secco e cruento del regista fa si che in diversi punti ci si sente esattamente come i soldati coinvolti nel caos e nell'orrore della guerra: si prova tensione, disgusto, confusione. Il difetto sta nei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi, che trasformano i marine americani in spavaldi cavalieri senza paura con abbondante retorica. Fondamentali gli apporti della fotografia, del montaggio e del sonoro.

Nel suo ultimo western, Peckinpah fa dell'instancabile ricerca dello sceriffo Pat Garrett per catturare il giovane Billy Kid una scusa per sancire, dopo l'epico Il Mucchio Selvaggio e il farsesco La ballata di Cable Hogue, il tramonto del genere piu' puro e rappresentativo del cinema americano, in cui i protagonisti, da temerari eroi della Frontiera, diventano mortali perdenti senza onore e senza legge. Un film crepuscolare ed emozionante, capace di mischiare il sangue delle violente sparatorie alle lacrime di scene madri ineguagliabili, tratteggiate dalla sontuosa colonna sonora di Bob Dylan, che include la celebre Knockin on heaven's door.

Stallone torna dietro le sbarre dopo Sorvegliato speciale, con Schwarzenegger come compagno di cella, pronti a imbastire un fantascientifico piano per sfuggire dalla galera galleggiante in cui sono capitati. Purtroppo e' il solito filmetto d'azione che esce ogni mese, appena appena meglio del recente The Last Stand, privo di qualsiasi idea a parte lo scontato humor cameratesco e le centinaia occhiatacce di sfida. Peccato, perche' l'incontro tra le due star di perle d'azione anni '80 poteva essere sfruttato meglio cosi' come il rilancio del genere carcerario, qui ridotto all'osso per accontentare un pubblico che probabilmente non conosce Atto di forza, Rambo, Fuga per la vittoria e Terminator.

L'aspetto più accurato dell'ultimo film di Godzilla riguarda le dimensioni del leggendario mostro nipponico. Per il resto, la pellicola non riesce a replicare la fantasia (e anche l'ingenuità) della fantascienza a cui si ispira, ripetendo all'infinito le stesse situazioni e gli stessi personaggi dei blockbuster di oggi. Dopo una prima parte inutilmente verbosa, la seconda si concentra sull'inevitabile distruzione della città, bella da vedere sul grande schermo, con il mostro realizzato benissimo anche se questo non basta a renderlo memorabile. Ed e' un peccato, perché non ci voleva molto a superare il pasticcio involontariamente comico di Emmerich.

L'odissea di 3 astronauti rinchiusi per una settimana in una navicella guasta e degli sforzi della base americana della Nasa per portarli sani e salvi a casa: Howard dirige col solito mestiere un film in pieno stile hollywoodiano con tutti i pregi e i difetti che ci si aspetta, tra lunghi intermezzi poco appassionanti (con una colonna sonora un po' invadente) e drammatici momenti di panico, impreziositi da una buona ricostruzione e da ottimi effetti speciali.

Ottimo thriller fantascientifico, tra le migliori opere prime di Cronenberg. Sfruttando abilmente un'atmosfera inquietante e opprimente, il regista canadese realizza un avvincente ibrido tra cinema di genere e la sua personale visione del mondo futuro, dove gli uomini sembrano impossibilitati a vivere una vita felice. Nonostante qualche passaggio confuso nella narrazione, la regia brilla di invenzioni e fantasia, utilizzando al meglio i pochi ma efficaci effetti speciali. Celeberrima la sequenza della testa che esplode.

L'inizio sembra promettere un thriller sulla dipendenza dei farmaci, ma dopo la prima mezz'ora le cose peggiorano: non c'e' tensione, non si prova nulla per i personaggi coinvolti in un'assurda lotta per la verita' (che sfocia in un finto finale a sorpresa, veloce e senza senso), non c'e' la voglia di raccontare qualcosa di piu' oltre al solito, scontato giallo moderno e la raffinata regia non serve a nulla per risollevare un prodotto che, dal quarantesimo minuto in avanti, ha l'effetto collaterale di un sonnifero.

Con grande stile viene raccontata la storia del rapporto teso e intimo tra Truman Capote e l'assassino della famiglia Clutter, in Kansas, alla fine degli anni 50. Attraversato da un'atmosfera cupa, il film di Miller riesce a catturare lo spettatore grazie a una puntigliosa sceneggiatura che, anche se molto dialogata, risulta sempre molto interessante specie nel descrivere il complicato rapporto tra il famoso scrittore e il killer: un rapporto che porterà Capote a perdere la sua sicurezza intellettuale e a cadere in una profonda depressione. Ma a colpire di più e' la straordinaria, magnifica interpretazione di P.S. Hoffman: la sua interazione con il personaggio e' così profonda da strappare l'applauso.

E' il film definitivo sulla droga, sul crollo fisico e mentale che conduce a qualsiasi tipo di dipendenza. Un'opera cupissima (fattore accentuato anche dallo score di Clint Mansell), drammatica, che riesce senza mezzi termini a far provare allo spettatore lo stesso malessere e la stessa spaventosa follia che attanaglia i protagonisti. Il coinvolgimento e' però limitato dall'eccessivo virtuosismo tecnico di Aronofsky che fa sembrare il prodotto finale più compiaciuto che appassionante. Ottima comunque l'interpretazione della Burstyn, capace di passare dal comico iniziale al tragico del finale.

Se si vuole passare una serata tranquilla a vedersi una bella commedia, questo non e' il film adatto. E' inutile, con prodotti del genere, prendersela per la mancanza di spunti registici, per una sceneggiatura che sembra scartata da una competizione da asilo nido o per un gruppo di attori venuti dalla tv incapaci nell'affrontare ruoli comici. Un fiasco totale: se e' inutile sperare in una rinascita della grande commedia nostrana, e' chiaro che titoloni come La soldatessa alle grandi manovre, L'esorciccio o la sterminata filmografia di Pippo Franco offrono uno spettacolo piu' interessante e sicuramente piu' divertente di sta fetecchia qua.

Un vecchio ormai senza memoria non rinuncia ad andare a Lincoln, Nebraska, per ritirare la vincita di un milione di dollari e trascina con se il figlio, anche se si tratta di una semplice pubblicita'. Come in A proposito di Schmidt, Sideways e Paradiso Amaro, i protagonisti intraprendono un viaggio alla scoperta di se stessi, fatto di piacevoli incontri e qualche baruffa. Payne non cambia stile e dirige una storia un po' piatta e non molto originale, costruita interamente su bei dialoghi realistici, strambi personaggi (su tutti la sboccata June Squibb) e assenza di ritmo. Tutto cade sulle gracili spalle del protagonista, un Bruce Dern che interpreta il ruolo di una vita dopo decenni da caratterista, in una prova intensa e sentita.