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Anne Novion non vuole mai giudicare i suoi personaggi, ma dargli tempo e vederli evolversi: ogni persona ha la sua propria cerchia e il suo proprio ambiente. "Il viaggio di Jeanne" è un lento progredire attraverso momenti di vita sottili, scene semplici vicine alla quotidianità in cui però i personaggi si rivelano e in cui affiorano le loro emozioni più intime. Per captare questo tipo d’espressione la regista 'lascia' la cinepresa e lascia allo spettatore il tempo di entrare nell’universo dei personaggi, nella loro sensibilità. |
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Qual è il punto di partenza della storia di IL VIAGGIO DI JEANNE? |
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La Svezia, che per me è un paese importante su cui ho già diretto due cortometraggi. Per il mio primo lungometraggio desideravo filmare un universo che conosco bene senza peraltro padroneggiarne tutti i codici. Non volevo filmare una realtà troppo vicina, come per esempio Parigi, dove vivo. Mia madre è svedese, e quando ogni anno vado nella casa di famiglia, in un’isola dell’arcipelago di Göteborg, ho sempre la sensazione che il mio sguardo su quell’isola e quel paese sia nuovo. Resto in effetti ancora stupita, sorpresa, da quel che vedo, e questo è importante per filmare… |
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Cos’ha voluto raccontare con IL VIAGGIO DI JEANNE? |
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Il mio film parla dell’incontro di quattro persone che a priori non avrebbero mai dovuto incrociarsi. La loro coabitazione forzata scompagina progressivamente le certezze e le illusioni di ciascuno di loro. Come nei miei cortometraggi, mi sono interessata ai rapporti che si intrecciano tra le persone, come esse si osservano, si guardano, si rivelano e si scoprono poco a poco col tempo. |
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A questo si aggiunge il tema dei rapporti padre-figlia… |
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È un’idea che risale al 2001. Avevo passato l’estate in Svezia e mia madre aveva invitato degli amici: un padre e sua figlia e un’altra donna, alla quale mi sono ispirata per il personaggio di Christine. Mi interessava vedere questo padre che si dedicava totalmente alla formazione della figlia, rifiutandone allo stesso tempo la nascente femminilità. Non la voleva vedere grande perché cominciava a comprendere di dover farsi carico di cose di cui si sentiva incapace, cose che avrebbero pututo essere imbarazzanti per un uomo come lui. Un uomo rimasto senza dubbio un po’ bambino. |
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I paesaggi hanno un significato forte in questa storia… |
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Svolgono in effetti un ruolo doppio e paradossale: rassicurante e minaccioso allo stesso tempo. Hanno qualcosa di singolare, un certo esotismo svedese con le sue luci incredibili, i suoi sorprendenti paesaggi grigio piombo, i bordomare rocciosi, l’opacità conturbante dell’acqua in certe ore e la bella luminosità del cielo in certe altre… Ho giocato con questi contrasti. All’inizio i personaggi arrivano in una bella casa rossa; tutto è grazioso e pittoresco e progressivamente, con l’evolversi degli stati d’animo dei miei eroi, i paesaggi diventano più scuri, inquietanti.
Abbiamo anche lavorato molto con il vento, cosa non intenzionale in partenza, ma abbiamo girato in un’estate molto ventosa: è diventato un elemento molto interessante, insieme visivo e sonoro, che poteva anche riferirsi metaforicamente ai tormenti dei personaggi. |
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Lei filma un po’ nel modo in cui si compone un dipinto… |
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Io sono cresciuta in un ambiente influenzato dalla pittura. Mia madre lavora al restauro delle opere d’arte al Beaubourg. Uno dei riferimenti pittorici che molto mi ha aiutato, tanto a livello delle inquadrature che delle luci, è Hammershoi, pittore danese di fine XIX - inizio XX secolo, che lavora su toni pastello, e questo è il partito preso della luce nel mio film. Molto svedese. Hammershoi lavora molto anche sulla rappresentazione di spalle delle donne. Mi hanno sempre affascinato le foto e i dipinti di persone di spalle, che permettono a chi guarda di dare libero corso all’immaginazione. C’è a questo proposito un aneddoto divertente durante le riprese del film. L’attrice svedese Lia Boysen non capiva perché filmassi le persone di spalle in piano sequenza. Un giorno è venuta a vedermi molto colpita: “Tu non mi riprendi che di spalle perché mi trovi brutta?” Le ho dovuto spiegare che per me le persone possono raccontare più cose di spalle che di faccia. |
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Ha lavorato da sola alla stesura della sceneggiatura? |
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In partenza ho lavorato un anno, quasi due, da sola, prima di mettermi a scrivere con Mathieu Robin, che è della mia generazione. Avevo una versione scritta, dialogata ma che partiva un po’ in tutte le direzioni. Mathieu ha portato un tocco di comico. Ha trovato idee da commedia dell’assurdo, come la storia del metal detector. In una terza tappa ho poi lavorato con Béatrice Colombier, sceneggiatrice più anziana, con maggior esperienza e anche più familiarità con quarantenni e cinquantenni, che ha arricchito la struttura della sceneggiatura. |
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