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Esce giovedì 11 aprile "Ci vediamo domani", prima regia dell'emiliano Andrea Zaccariello, con protagonista Enrico Brignano. L'attore romano, che veste i panni di un impresario che tenta di risolvere i propri problemi aprendo un negozio di pompe funebri nel paese con più anziani d'Italia, racconta in conferenza stampa i motivi che l'hanno spinto ad accettare il ruolo in una commedia con sfumature comiche pervasa da una vena d'amarezza, lasciandosi poi andare a una riflessione sui problemi dello spettacolo in Italia. |
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Cos’hai pensato quando hai letto il copione? |
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Quando ho letto la sceneggiatura ho detto: e io chi so’, tra tutti questi personaggi qua? Il protagonista. Ah, io pensavo di fare mia moglie... E’ un film in cui il protagonista è in scena per il 98% della durata del film, è molto impegnativo, anche a livello di viaggi. Vengono toccate alcune corde delicate, è un film in cui in scena ci sono delle bare, uno humour abbastanza complicato perché siamo incapaci di relazionarci in modo giusto con la morte, anche se purtroppo ci abbiamo rapporti quotidianamente, e quindi anche con la vita.
Questo film non ha cordate di comici, e questo mi allettava, non volevo essere solo un volto in cartellone: non c’è il tentativo di sceneggiare un contratto, è invece una storia per cui sono stato scelto io. Parlando con Andrea, che già conoscevo perché abbiamo fatto una pubblicità insieme quando eravamo ancora ragazzi, ho detto che secondo me si poteva far bene e il progetto è effettivamente riuscito.
Io credo che il film guardi alla commedia all’italiana, con qualche scene drammatica, che pizzica il cuore; il pubblico vuole che gli si racconti una favola, e il film racconta quella di Marcello Santilli, campione nazionale di gratta e vinci (ce ne sono tanti che si rovinano e lo Stato dice solo giocare con moderazione...), che giocando perde il ristorante perché non voleva pagare tante tasse, la famiglia, una serie di cose che portano alla catarsi.
Credo che le risate migliori il film le abbia nella sfumature, che sul copione non si possono leggere e che invece con Andrea abbiamo tirato fuori nel farlo; lui aveva carta bianca, e non avendo pellicola non aveva metrature da non sforare, e allora quando eravamo nel dubbio ne facevamo una così e una colà, e lui se l’è smazzata al montaggio. |
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Com’è stato lavorare con Burt Young? |
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Il primo momento in cui l’ho incontrato è stato quando ci siamo conosciuti in albergo, mi chiese se poteva recitare in inglese, cosa che poi abbiamo fatto senza problemi. Sul set nel suo inglese, un inglese newyorkese, di Brooklin, molto sporco, con la sua voce trascinata, faceva capire che aveva bisogno di un momento per entrare nel personaggio e subito dopo mostrava lezioni straordinarie di recitazione.
Per noi Burt è Paulie che prepara le bistecche per Rocky, quello che butta il tacchino fuori dalla finestra il giorno del Ringraziamento: noi pensiamo che in America le produzioni non abbiano problemi di budget, invece c’era un tacchino solo – e “Rocky” è campione d’incassi, ha dei record che credo siano tuttora imbattuti – e c’erano dei macchinisti dall’altra parte, con una rete, che raccoglievano il tacchino e lo sistemavano per il nuovo ciak; a forza di tirarlo, la terza volta gli si è staccata una coscia, per cui c’è quella scena dove gli è rimasta in mano, ha improvvisato e l’ha mozzicata chiedendo a Rocky se ne voleva... |
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E lavorare con Francesca? |
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La Inaudi aveva quattro pose, diluite nel tempo. C’era una serie di camper e pensavo ogni mattina di dividere il lavoro con molti altri attori, invece c’ero sempre io, gli altri venivano, facevano due ore e se ne andavano. La Inaudi l’ho vista come la Madonna di Civitavecchia: mi è apparsa in tutta la sua bellezza e poi andava via. |
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Come vedi l’attuale momento della commedia italiana? E quali ti piacciono? |
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Quelli che mi piacciono: pochi. Quelli che vado a vedere: tutti.
Il cinema italiano lo vedo sempre un po’ in modo faticoso. I produttori dicono che non ci sono registi, i registi che non ci sono attori, gli attori che non ci sono produttori... Qualcuno manca all’appello. Io credo che possiamo produrre molto meglio di quello che produciamo mediamente. Non so perché i francesi riescano ultimamente ad essere più bravi di noi a tirare fuori storie che noi già sappiamo, perché Benvenuti al sud è un successo italiano su un’idea francese, e sembra assurdo perché il problema tra nord e sud ce l’abbiamo da sempre. Forse non crediamo in noi stessi, e questa è un’accusa che faccio a tutto il settore, perché ci sentiamo un po’ superiori: noi che siamo un Paese di poeti, viaggiatori, navigatori, teatranti, abbiamo inventato il teatro, la musica, la commedia dell’arte, non siamo capaci di celebrarci a dovere; quando si fanno le trasmissioni sul cinema sono sempre di notte o per tappare un buco pubblicitario, quando vengono dati i premi al teatro vanno alle tre di notte, invece lo spettacolo lo dovremmo vivere come business e se poi un film come quello di Checco Zalone guadagna 43 milioni di euro lì ce n’è per tutti. Dovremmo credere molto di più e questo darebbe molta più credibilità a tutti, anche a voi giornalisti. Lo spettacolo teatrale è l’unico motivo per cui valga la pena vivere questa vita fatta di IMU, Equitalia, tasse... credo che debba essere l’unico impegno vero perché è nella nostra natura. Che senso ha una vita senza cinema, senza teatro?
Poi alcuni ministri dicono che con il cinema non si guadagna niente... noi non dovremmo dare loro la possibilità di dire queste cose, facendo meglio il nostro lavoro, credendo di più in quello che facciamo; io ricordo che un giorno facemmo uno sciopero nazionale dei fonici, macchinisti, gente di teatro, trovammo il cinema più brutto di Roma, piccolo, e la fonica faceva schifo: questo non è possibile. I premi al cinema: c’è solo Solenghi che li presenta, ha pure finito gli aneddoti; non posso pensare che ci sia solo uno che lo faccia, a mezzanotte e quaranta, i primi a non crederci siamo noi. Non siamo bravi costruttori di vetture, siamo un Paese dei sogni, proviamo a costruire con questi. |
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