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Presentato al 63° Festival di Venezia nella sezione "Controcampo Italiano", esce in sala venerdì 10 settembre “20 sigarette”, il racconto dell'unico civile sopravvissuto della strage di Nassirya del 2003: Aureliano Amadei, arrivato in Iraq quasi per caso, con tutti i pregiudizi di chi riteneva quella in corso una missione di guerra e non di pace. L'ufficio stampa ha diffuso una breve intervista al regista, in cui racconta una storia di sentimenti più che di guerra, che nel dolore gli ha fatto capire il reale peso delle cose. |
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La famiglia: |
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La mia famiglia è un casino. Ex hippies che hanno finito per convogliare tutte le esperienze accumulate nei tanti viaggi in giro per il mondo semplicemente in un amore per la bella vita. Da una famiglia così non può che nascere un figlio punk, ribelle, in polemica con la casa borghese e radical chic che lo ospita ancora a 28 anni. Generalmente, ho descritto le situazioni familiari come un'esplosione, con contrasti continui. I toni sono quelli della commedia, come a sottolineare che, spesso, i problemi che viviamo nel quotidiano ci sembrano enormi, fino a che non entriamo in contatto con problemi molto più seri. Questo emerge con forza quando, tornato a Roma, in ospedale, vedere i miei genitori ha significato la salvezza, il ritorno alla vita, provocando un'esplosione di pianto. |
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La socialità: |
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Il mondo che vivevo a 28 anni è una sorta di adolescenza prolungata. Gli ideali sono molti e condivisi nel gruppo degli amici. Come in adolescenza, le certezze sono persino troppe, nonostante il precariato economico, professionale ed affettivo. Ognuno fa qualcosa che “fa fico”; c'è chi canta, chi fa le installazioni e chi fa politica. Io riprendevo tutto con la telecamera e montavo piccoli documentari e videoclip. Queste situazioni sono descritte come l'opposto della famiglia; nulla è serio, neanche il pericolo della guerra. Ma nel gioco dei ruoli io ero quello che non poteva rifiutarsi di partire, ero il “matto”.
Una volta passato attraverso il frullatore della vita e della morte, il gruppo diventa uno degli elementi di contrasto con cui misurare il proprio cambiamento e rappresenta, simbolicamente, l'autocritica. |
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L'amore: |
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L'amore è un parolone. Almeno finché non sono stato costretto a scoprire l'amore per la vita. Nel 2003 una delle caratteristiche del mio ruolo era di essere un farfallone. Una fidanzata brasiliana che sta in Brasile e sta bene lì, un'amica speciale con cui fare “all'amicizia” e una continua instabilità. Come se non fossi capace di fermarmi ad apprezzare quello che avevo, alla continua ricerca di qualcosa di nuovo. Il fatto che la mia amica speciale sia ora la mia compagna di vita è una vittoria dei sentimenti sulla ragione, sulla propria considerazione di sé, sulla considerazione che gli altri hanno di noi. Questo è uno dei contenuti profondi del film: l'umanità va ben oltre il ruolo che uno si è ricavato nella società. |
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Il mondo militare: |
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Sono arrivato in Iraq con tutti i pregiudizi di chi è arrivato all'aeroporto militare direttamente dal centro sociale. A 18 anni mi sono finto gay per evitare la naja. Nel novembre del 2003 partecipavo all'organizzazione delle numerose manifestazioni per la pace che, in quel periodo, portavano in piazza milioni di persone. Oggi non rinnego nulla né del mio pacifismo né della mia avversità alle missioni militari all'estero ma, dopo aver visto morire dei ragazzi di vent'anni, dopo aver fatto amicizia con il Ten. Massimo Ficuciello, dopo essere stato salvato da un gruppo di civili iracheni, ho sentito fortemente sulla mia pelle che non basta dichiararsi contrario. Non è possibile schierarsi da una o dall'altra parte perché non è possibile auspicare la morte né degli uni né degli altri. Anche questa è una vittoria dell'umanità sul ruolo sociale. I militari che ho conosciuto io rappresentano un'umanità varia, fatta di fomentati guerrafondai come di persone curiose, aperte e oneste; di autoritari, di bugiardi, di simpatici e di anonimi. Credo di rendergli molto più onore descrivendoli così che semplicemente come eroi senza macchia e senza paura. |
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La guerra: |
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Ho trascorso solo poche ore in Iraq, giusto il tempo di fumare un pacchetto di sigarette. Ma dell'attentato e dei minuti di terrore che ne sono seguiti ricordo ogni singolo fotogramma e ho scelto di non risparmiare nulla allo spettatore. Il tutto è girato in soggettiva, offrendo la possibilità di vivere quei minuti come li ho vissuti io: confusione, panico, ricerca di un nascondiglio, orrore per le ferite, per il sangue. E poi chiasso che sfonda i timpani, cadaveri, fiamme, colpi di mitra ed esplosioni. Il terrore che spezza il fiato, che si specchia negli occhi dei compagni di sventura, che ti spinge a scappare nonostante il piede a penzoloni e l'occhio dilaniato. La guerra in 20 sigarette è un concentrato di paura che dura pochi minuti ma non sembra finire mai. La guerra che ho vissuto io finisce con i civili che si accalcano, che strillano, che mi caricano su una macchina e buttano sul mio corpo insanguinato un bambino immobile, candido, freddo. La guerra finisce con la morte. |
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La rabbia: |
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Un'esperienza così non lascia solo l'umanità e l'amore. Lascia anche una buona dose di rabbia. L'ipocrisia di un paese in fibrillazione per gli eroi di Nassirya, il presenzialismo costante di politici, generali, preti e giornalisti. Il senso di colpa per essere sopravvissuto, il senso di responsabilità che si prova quando una storia che sembrava lontanissima arriva così vicina da ustionarti. Il mondo di cui ti sentivi parte ora inneggia a: “10, 100, 1000 Nassirya” e nessuno sembra capire che non c'è bisogno di imbracciare un fucile per uccidere delle persone a migliaia di chilometri da qui. Il misto di rabbia e tristezza che si prova quando non riesci a tenere in braccio la tua bambina senza rivedere nel suo volto quello di un bambino che ha avuto la sfortuna di essere nato e morto a Nassirya. |
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