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Il Ritorno, opera prima del quarantenne Andrej Zvyagintsev, trionfa nel 2003 a Venezia. Dopo aver lavorato con la televisione, il neo-regista russo irrompe sulla scena cinematografica sulla traccia delle orme di Tarkovskj. |
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Il suo film sembra carico di simbolicità: è questa la sua idea di cinema? |
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No, per me il cinema è come l’aria, una materia da plasmare: caricarlo di significati simbolici significherebbe distruggere quella materia, la poesia che ne è parte essenziale. |
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C’è chi interpreta il suo film in chiave psicanalitica, chi vi riscontra diversi motivi biblici. Quale chiave di lettura si sente di dare? |
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Non voglio pensare il mio film in termini psicanalitici, non mi interessano. Mi sento più vicino alla dimensione religiosa dell’uomo, ma se ci mettessimo ad analizzare eventuali significati sacri tutto ciò che c’è di sacro, o di magico, svanirebbe. Io voglio solo suggerire cosa è veramente importante, non parlarne. |
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Quali possono essere altri significati? |
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Non ne voglio parlare, lo spettatore deve trovarsi faccia a faccia con il film e decidere da solo cosa gli piace e perché, senza ‘subire’ il mio commento preventivo. |
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Ma il ritorno del padre avrà un qualche significato. |
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Nessun incontro ne è privo. Non è una storia personale che permette a tutta una serie di cose di accadere per caso, v’è significato e v’è predeterminazione. L’incontro è importante tanto per il padre quanto per i figli, ma non voglio andare più in profondità. |
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Almeno il successo avuto, quello come lo spiega? |
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Non vorrei sopravvalutare questo fenomeno, non so dire perché il film abbia ottenuto tanta popolarità nei vari festival cinematografici; ciò non sminuisce la mia felicità che, anzi, è arrivata improvvisamente: il successo non era calcolato, non c’è stata l’intenzione di compiacere le commissioni selezionatrici dei festival, eppure il film è piaciuto. |
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Molti critici hanno paragonato l’atmosfera del suo film all’opera di Tarkovskj: cosa ne pensa? |
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Non c’è dubbio: per un regista russo è impossibile non sentire l’influenza di quello che, fose, è il personaggio più profondo del nostro cinema. Credo che il riferimento maggiore sia nel modo in cui il tempo scorre nel mio film. Comunque non ho cercato di imitarlo, né l’ho citato. |
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L’assenza di riferimenti temporali è una scelta? |
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Sì; è una vicenda sospesa nel tempo, neanche il pubblico russo può capire in che anni siamo. Dicono che il padre potrebbe rappresentare la vecchia Russia, i figli quella odierna: è una lettura possibile, ognuno è libero di vedere quel che vuole. |
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Progetti futuri? |
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Fino ad oggi ho fatto televisione, ma è stata solo una questione di sopravvivenza. Non mi sarebbe dispiaciuto fare l’attore, ma ormai la mia strada sembra un’altra: spero che il successo mi permetta di occuparmi solo di cinema. |
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Quando ha deciso di diventare regista? |
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C’è un momento esatto: quando ho visto L’avventura, di Antonioni. Quindi ho ‘studiato’, cibandomi del cinema più vario: dal quello del primo dopoguerra di Griffith al migliore di adesso, Wong Kar-wai. |
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