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Undici ore divise in sei episodi sulla Germania degli anni ’90: chiude la saga di Edgar Reitz iniziata oltre vent’anni fa. Al centro di aspettative, ma anche di polemiche, il regista parla in diversi momenti della sua opera: dal progetto, inizialmente per il cinema, alla prima realizzazione televisiva, fino all’ultima conferenza stampa dopo l’uscita di Heimat 3. |
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Come nasce, e come si realizza, un progetto così impegnativo? |
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Dopo il fallimenti de Il sarto di Ulm decisi di scrivere un libro, in teoria la mia autobiografia: mi venne in mente la storia di uno zio di mia madre, tornato in Germania molti anni dopo essere sparito, quindi impostai il racconto sulla centralità del tema dell’andare via. A questo punto tutti i personaggi di Heimat erano stati creati. Il manoscritto giunse alla televisione, decidemmo di scriverne una sceneggiatura; mi offrirono un contratto per un film di sei ore, lo girai di sedici a loro insaputa. Pensavo ad un film impossibile, senza limiti, un’utopia. |
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A cosa è dovuto il successo di Heimat? |
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Rispetto alle mie opere precedenti, mi sono liberato d’ogni freno, non mi sono posto limiti. Questo ha fatto sì che il film rispecchiasse più fedelmente la mia idea di cinema, ed è inoltre uscita fuori un’opera difficilmente classificabile, quindi ancor più difficile da smontare o distruggere. Una grossa mano me l’ha data la sincronicità col tempo reale: il pubblico era pronto per questo film. |
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Perché il periodo del ’68 è sviluppato così marginalmente? |
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Il problema è la vicinanza di quegli eventi, con così poca distanza non mi sentivo pronto a confrontarmi apertamente con un periodo per me tanto importante. Comunque, la vita di Maria e Paul, i protagonisti, si compie prima del ’68, questo mi ha permesso di lasciare ai margini del film i movimenti studenteschi. Tutta la parte degli anni ’60 l’ho inserita quasi esclusivamente per poter raccontare la storia dei figli di Maria. |
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Il ruolo della donna non sembra lo stesso nei primi due Heimat. |
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È vero, e la ragione è semplice: nel primo erano il centro del film perché, quando uno è piccolo, il ruolo più importante della sua vita è quello della madre, dunque un ruolo femminile. Nel secondo i personaggi, più adulti, vedono la donna come desiderio: tutto ciò che fanno non è per loro, ma per il proprio desiderio, quindi per se stessi. |
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Si parla molto della nostalgia dell’Est che fu. Perché i tedeschi rimpiangono tanto quel periodo? |
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Credo che dipenda molto dal fatto che la gente dell’Est pensava che dopo la caduta del muro tutti i suoi problemi si sarebbero magicamente risolti, mentre così evidentemente non è stato perché si è trovata a confrontarsi con tutte quelle illusioni che aveva sulla vita della Germania dell’Ovest ed essere poi costretta a rivederle. Questo ha portato anche ad un rimpianto verso alcune cose che aveva prima e che adesso non ha più. |
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In Heimat 3 si capisce che la musica è importante per il protagonista, ma non fondamentale. Quanto questo si intreccia col suo ritorno a casa, con la fine dei sogni, delle illusioni? |
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Ho conosciuto molti musicisti di questa generazione, persone che negli anni Sessanta avevano grandi sogni di autorialità, di essere compositori dell’avanguardia e poi sono finiti a fare i direttori d’orchestra, rinunciando ad una propria creatività. Questo credo sia un fenomeno del nostro tempo, uno sguardo rivolto al passato, una rivalutazione dell’arte tradizionale che ti consola rispetto alle poche possibilità che offre il presente per poter creare e consola anche rispetto ai limiti del proprio talento. Questo non è comunque un tema centrale di Heimat 3. |
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Qual è allora il tema centrale? |
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Si tratta di temi elementari, come per esempio costruire una casa, trovare un luogo dove vivere. Persone come Hermann e Clarissa hanno passato tanto tempo a muoversi da un posto all’altro, a non avere un posto di riferimento fisso, una patria, e ora si trovano con questo bisogno di un luogo dove tornare, dove ci si trovi e dove gli altri abbiano la possibilità di trovarti. |
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Come è riuscito a concentrare un intero decennio in sole undici ore? |
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Sicuramente Heimat 3 avrebbe dovuto essere più lungo: poi è stato accorciato fino alle undici ore per problemi di finanziamento. Figuriamoci: a mio giudizio nemmeno le 26 ore di Heimat 2 sono state sufficienti per esprimere pienamente la crescita dei personaggi. |
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Ha avuto finanziamenti di Stato? |
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Sì: mentre i primi due Heimat sono stati fatti senza alcun apporto statale, finanziati esclusivamente da televisioni e prevendite, per Heimat 3 abbiamo avuto sia delle sovvenzioni europee, sia dei finanziamenti dallo Stato tedesco che complessivamente fanno più o meno il 40% del budget totale. |
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Le saghe filmiche sono sempre caratterizzate da polemiche di carattere politico. Lei ha incontrato questo tipo di problemi in Germania? |
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Quando uscì Heimat, ci furono delle polemiche soprattutto negli Stati Uniti. Alcuni critici furono irritati dal modo in cui veniva rappresentato il nazional-socialismo. Nei miei film, secondo loro, il fatto che venisse rappresentato da un punto di vista molto quotidiano minimizzava gli orrori del nazismo. Secondo loro l’Olocausto non veniva rappresentato in modo adeguato, se ne parlava troppo poco. È chiaro che queste polemiche mi hanno molto colpito e addolorato, perché chiaramente non era nelle mie intenzioni ignorare le vittime e gli orrori del nazional-socialismo, ma per me era importante rappresentare quel periodo da un’altra prospettiva, una prospettiva umana che si ponesse la domanda di come sia stato possibile arrivare a ciò e come ci si comporterebbe oggi nelle stesse circostanze. Per quanto riguarda Heimat 3 ci sono state altre polemiche perché comunque tratta un tema politico, lo sguardo sull’ex Germania dell’Est, ma le risposte che do io sono molto simili a quelle di Heimat 1, è solo il contesto storico che cambia. |
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Perché la scelta di alternare le scene a colori a quelle in bianco e nero? |
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La fotografia crea un’atmosfera completamente diversa e focalizza in modo differente le cose, dando una certa importanza a certi aspetti piuttosto che ad altri, a seconda che sia a colori o meno: la fotografia in bianco e nero, per esempio, dà molta importanza al volto umano, acutizza il realismo e permette di uscire dalla realtà, di citare il cinema classico, funzionando come collegamento con la storia. In Heimat 3 ha a che fare con la qualità del ricordo, cioè col modo in cui ricordiamo. |
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Quali sono i riferimenti del suo cinema? |
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La mia fonte di ispirazione più grande, più che il cinema, è sempre stata la letteratura. Il cinema è povero di opere che sono capaci di raccontare un universo narrativo. Uno degli scrittori che mi ha ispirato maggiormente è stato Marcel Proust, col suo tema estremamente cinematografico, la ricerca del tempo perduto. Trovo che l’arte cinematografica sia uno strumento perfetto per ritrovare il tempo perduto. |
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