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"Triage", ultimo film di Danis Tanovic, esce in Italia a fine novembre, distribuito da 01; un mese prima il regista premio Oscar per "No man's land" ha l'onore di inaugurare il Festival Internazionale del Film di Roma, giunto alla sua quarta edizione. "Triage" è inoltre il primo dei film che concorreranno per il Marco Aurelio della critica e quello del pubblico. In conferenza stampa Tanovic fa il suo ritorno a Roma 2 anni dopo aver presieduto la giuria, accompagnato da Christopher Lee, Paz Vega e Branko Djuric. |
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Ci racconta la genesi di questo film? |
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Mi ha chiamato la “Mirage” di Anthony Minghella, mi ha proposto di leggere un libro dopo aver visto “No man’s land”. Allora non avevo voglia di fare un altro film sulla guerra, ho detto che avrei letto il libro; dopo averlo letto ho detto che avrei scritto la sceneggiatura ma non lo avrei girato; alla fine ovviamente l’ho anche girato. Appena ho finito il libro avevo deciso di lavorarci, volevo parlare dell’esperienza dei giornalisti di guerra e di quella dopo la guerra, del peso che rimane alla fine, affrontandolo da un altro punto di vista. |
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Come avete lavorato con Denis Tanovic? |
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Paz Vega: (rivolta a Tanovic) Non guardarmi così...
Lui ha una voce potente, può spaventarti; ma è delicato, è bello lavorare con lui, abbiamo avuto un bel rapporto. Ci siamo conosciuti a Los Angeles, mia ha detto col suo vocione “ti voglio nel mio film, voglio essere sicuro se lo vuoi fare, se ti piace”; mi ha messo paura, gli ho subito detto di sì.
Branko Djuric: Per me è la seconda volta dopo “No man’s land”, siamo vecchi amici. Stavolta non ho avuto problemi con lui, ma col mio ruolo: quando mi preparo devo trovare elementi caratteristici tra me e il personaggio, stavolta invece non ho trovato punti in comune. Mi sono detto: stavolta comincio a recitare! |
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In che modo la sua esperienza di guerra l’ha aiutata? |
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Chiunque abbia avuto esperienze di guerra vive esperienze analoghe: la guerra può essere diversa, ma le emozioni sono le stesse.
Cristopher Lee l’ho conosciuto a Berlino: di solito quando dico che vengo dalla Bosnia mi chiedono “Boston”? Invece Christopher c’era stato nel ’45, con Tito, e si è messo a raccontarmi storie di cose che io avevo studiato a scuola. Quando hai avuto queste esperienze ci sono grosse emozioni che entrano in gioco.
Quanto alla mia esperienza personale, vi racconto un aneddoto: qualche giorno fa nella mia casa di Sarajevo ho trovato una cassetta, l’ho messa per vedere cosa fosse, erano immagini girate da me durante l’assedio; l’ho buttata immediatamente. Queste cose mi trascinano, dopo “No man’s land” ero davvero stanco, per un anno ho girato per i festival di tutto il mondo rispondendo alle stesse domande, avevo la sensazione di essere una macchina. |
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Il film inizia con Colin Farrell ferito, ha un atteggiamento che richiama il Che de “La hora de los hornos”. E’ voluto o è solo una nostra icona che si sovrappone per caso? |
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Beh, Colin Farrell ne sarà orgoglioso quando glie lo dirò... No, non l’ho mai pensato, o almeno non consciamente. |
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Il messaggio è che nessuno può considerarsi estraneo alla guerra, e che la perdita d’innocenza è globale? |
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Vorrei credere che sia così, ma non ne sono sicuro. Non c’è una risposta a questa domanda, perché le guerre continuano ad esserci. Il mondo è tutto interconnesso, ma a livelli diversi: non reagiamo allo stesso modo di fronte alla stessa situazione, alcuni sono turbali dalle cose più piccole, altri non lo sono da quelle enormi. Io sono colpito da ogni conflitto con cui entro in contatto, ad esempio siamo andati a Kabul per costruire un cinema perché ritenevamo che fosse importante. |
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Un altro tema è il ruolo che i media hanno oggi nei conflitti, accusati di condizionarne lo svolgimento con la loro presenza. E’ un’impressione esatta? |
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Sì, molto. Un mio amico appassionato di fisica quantistica mi ha spiegato come le cose reagiscano diversamente a seconda se qualcuno le sta osservando o meno... C’è interconnessione tra tutte le cose. Noi bosniaci siamo un esempio di come i media possano salvare delle vite, la guerra sarebbe stata molto peggiore senza di loro. C’è un grande interrogativo, su quanto si vada realmente a fondo: per fortuna ci sono persone che vanno sul luogo e ne scrivono sette colonne, cercando di riportare quel che hanno capito. Non credo però all’oggettività, tutti sono soggettivi; ci vuole un atteggiamento morale, non credo nella neutralità, ad esempio delle Nazioni Unite, ma nell’equità e nella giustizia. C’è un problema riguardo al guadagno: cercando lo scoop si raccontano a volte storie sbagliate. Però la maggior quantità di informazioni non vuol dire sapere più cose, è necessario il modo all’antica, il giornalista che parte e cerca di capire, quindi di scrivere, che è una cosa diversa dal dare in tempo reale informazioni che sostanzialmente non raccontano nulla. Ho comunque un enorme rispetto per i giornalisti di guerra, so che la guerra li tocca profondamente. |
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Approfondiamo il discorso sulle Nazioni Unite... |
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Ho passato una serata splendida a New York per la proiezione di “No man’s land”, una persona delle Nazioni Unite dopo il film mi ha chiesto “siamo davvero così pessimi?” – “no” ho risposto, “siete molto peggio, ma se lo raccontassi nessuno ci crederebbe”. Hanno deciso per l’embargo delle armi in Bosnia, ma gli aggressori le armi già ce le avevano; i militari dovevano nutrirci, come se un vicino di casa ti stupra, io ti lego, ti do del cioccolato e lo lascio fare. Non credo esista la neutralità, di fronte a uno stupro, a un massacro, non fare nulla non è neutrale; non funziona mai per le vittime, favorisce gli aggressori. Penso si debba prendere posizione, non è facile.
Prima della seconda Guerra Mondiale c’era la Società delle Nazioni, poi è scomparsa perché non aveva fatto il suo dovere; anche l’ONU scomparirà prima o poi, ci sono troppe domande senza risposta. |
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