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Il primo italiano in concorso alla Festa del Cinema di Roma è Carlo Mazzacurati: a tre anni di distanza da "L'amore ritrovato" il regista padovano presenta alla stampa "La giusta distanza".
Nella Sala Petrassi dell'Auditorium lo accompagna una squadra al completo: con lui sul palco salgono undici persone, da Domenico Procacci a Luca Bigazzi, gli sceneggiatori e gli attori.
Tutti insieme appassionatamente, sembrano ribadire il concetto chiave del film: la giusta distanza va superata. |
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Ci vuole una ‘giusta distanza’ per vivere in questo Veneto, per raccontare il mondo nel quale vivi? |
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Io ho bisogno di un luogo che riconosco per raccontare una storia. Per me è indispensabile, per avere la materia da cui poi partire. Però non c’è alcuna intenzione di documentare la realtà: io voglio semplicemente conoscere il teatro dell’azione. |
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Ma si tratta di un Nord-Est rappresentato nella sua negatività… |
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Intanto non mi piace usare queste distinzioni geografiche, preferisco parlare di un posto, del Veneto che magari conosco. Trovo che sia un’idea sbagliata etichettare un luogo come negativo: io vi rilevo un’infelicità, un’inquietudine di fondo… E’ una storia che cerca di raccontare uno squilibrio che io percepisco. |
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Rimane però una visione quasi privata. |
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Ognuno racconta il mondo che conosce, ma spera di raccontarlo anche a chi ne è estraneo. Si tratta di cercare, di trovare un punto di contatto tra questo ed altri mondi. A me capita spesso di ritrovarmi nella provincia americana più profonda, raccontata in molti film, come se avesse molto a che vedere col mondo che conosco io. |
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Il soggetto è stato scritto un anno e mezzo fa: c’è un punto di partenza puramente emotivo, o c’è anche una base di cronaca? |
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Credo sia soltanto emotivo, una specie di ‘sentire’ non ben definito. Sapevamo di correre il rischio di essere fraintesi, che la gente potesse immaginare che il fatto che raccontiamo venga dalla cronaca: non è così, anzi il nostro è l’atteggiamento opposto, trovo che la finzione televisiva, enfatizzando i fatti di cronaca, elevi ad eroi o ad antieroi personaggi molto vicini a noi. E’ un modo falsificante della verità, del sentimento profondo di ciò che è avvenuto.
Per me invece si tratta di un Male banale, non c’è l’efferatezza enfatizzata dai media. |
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Parlando invece dei personaggi: non c’è stato un lavoro preparatorio con gli attori. |
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E’ vero, io non credo nel tempo speso per la costruzione dei personaggi: Valentina, ad esempio, è arrivata con noi proprio al momento di iniziare le riprese. Bisogna cercare di catturare autenticità all’interno di questa grande macchinazione, tante volte questo arriva inaspettatamente. L’avvicinamento dei due personaggi ha potuto sfruttare l’avvicinamento di due attori che non si conoscevano. Inoltre non mi piace fare le prove e sprecare l’energia che scaturisce sempre dal primo ciak. |
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Alcuni personaggi sono decisamente negativi… |
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Io vengo spesso accusato di non spingere mai a fondo la malvagità: è che non riesco a trovare una persona cattiva fino in fondo. Amos, il personaggio interpretato da Giuseppe Battiston, genera in me una profonda tristezza, dietro la sua vitalità vedo solitudine, disperazione.
Ripeto, il male è banale, non c’è bisogno di tanto sangue: l’effetto catartico ci allontana dalla verità. |
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Sul titolo del film, infine, interviene Fabrizio Bentivoglio: |
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L’unico modo di raccontare le cose è di entrarci dentro anima e corpo, di non mantenere alcuna giusta distanza. |
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