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"The lovely Bones", il nuovo lavoro di Peter Jackson, sarà nelle sale italiane dal 5 febbraio 2010 distribuito dalla Universal Pictures con il titolo "Amabili resti". L’acclamato regista della trilogia de "Il Signore degli Anelli" esalta la tecnologia 3D e si cimenta in una storia d’amore, affetti e speranze nel futuro che svela come la morte possa essere vissuta anche come momento di bellezza e di luce intensa. Ma la spinta di base della sua cinematografia rimane la stessa: "Fare film per intrattenere il pubblico". |
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Perché ha fatto un film sul best seller di Alice Sebold? Cosa voleva trasmettesse questo al di là che ha rappresentato? |
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Eravamo fortemente attratti dal tema riguardante l’al di là e quello che succede quando si muore.
Il libro della Sebold è interessante perché affronta una tematica difficile su cui si interroga da sempre l’intera umanità: cosa succede quando si muore? A me piace pensare che ci sia una spiegazione scientifica del passaggio che fa lo spirito quando abbandona il corpo perché credo che ci sia una continuazione dopo la morte. Il film è intrattenimento però e quindi può anche non rispecchiare totalmente la realtà. L’autrice del libro ha voluto affrontare questo tema utilizzando comunque uno spunto forte perché sceglie di non far morire la protagonista in età avanzata, ma nell’adolescenza, quindi nel momento in cui tutto deve ancora essere vissuto. Potevamo scegliere di fare un film deprimente ma non ci sembrava la giusta strada. L’intenzione era che il film non parlasse di un omicidio ma che fosse una storia d’amore, alla fine della quale la famiglia della ragazza capisse di poterla continuare ad amare come figlia anche se ormai non c’è più. |
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Dai suoi lavori scaturisce una passione per la tecnologia 3D. Cosa pensa di questa nuova tecnica applicata al fare cinema? |
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Mi piace che sia utilizzata nei film, non la trovo affatto noiosa ed è un modo per staccarsi dalla realtà. Sono convinto che nel tempo diventerà una tecnica molto comune perché può davvero aggiungere qualcosa all’esperienza cinematografica. |
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Come ha scelto la sua Susie e come è stato lavorare con lei? |
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Prima di incontrare Saoirse Ronan avevamo già provinato altre 20 ragazze ma erano molto moderne nei modi, nel vestire e nei gesti che risultava difficile immaginarle in un film ambientato nel 1973. All’epoca Saoirse aveva recitato nel film “Espiazione” e il regista Joe Wright ci ha inviato un dvd con delle scene che stava montando in cui c’era lei. Guardandole non abbiamo avuto dubbi: era un’adolescente ed era americana. Saoirse Ronan ha rivelato essere un’attrice di uno straordinario talento naturale. Sul set abbiamo lavorato in grande libertà: io le spiegavo una scena e lei prendeva il via autonomamente su quello che doveva fare. |
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Riguardo le location, si può dire che lei ha sempre privilegiato la Nuova Zelanda per girare i suoi film. In questo ultimo lavoro però per la prima volta si è spostato negli Stati Uniti. Come spiega questa scelta? |
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Con “Amabili resti” per la prima volta ho girato anche fuori la Nuova Zelanda. Abbiamo sfruttato alcune location della Pennsylvania ed è stato molto importante perché l’autrice del libro ha vissuto lì la sua adolescenza e ha usato quei luoghi per ambientare il romanzo. Era coerente tornare lì. Forse quando si lavora sempre nel proprio Paese si rischia di non essere inseriti nella scena dell’industria cinematografica hollywoodiana che richiede di essere in un certo modo. Rimanerne un po’ fuori può aiutare a mantenere una certa indipendenza. |
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Come è stato lavorare su due personaggi così particolari come quelli interpretati da Susan Sarandon e Stanley Tucci? |
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Sono due personaggi fondamentali nella storia. Quello di Stanley, l’assassino, doveva essere blando, anonimo e patetico. Privo di senso dell’umorismo e quasi noioso ed è quello che gli consente di farla franca e di non farsi notare. Non volevamo che risultasse un personaggio affascinante come poteva esserlo un Hannibal Lecter. Susan e Stanley sono due attori famosi e straordinari. Con lui abbiamo discusso più volte del ruolo perché capivamo che non si sentiva del tutto a suo agio. Nella vita è una persona molto amabile, un padre buono e fisicamente il suo aspetto è italiano: occhi scuri, pochi capelli. Solo nel momento in cui lo abbiamo “trasformato” è riuscito a prendere le distanze dal personaggio e ad interpretarlo. Susan invece è proprio come si vede nel film: una persona deliziosa, che non prende nulla troppo sul serio e lavorare sul set con lei è stato molto divertente. |
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Cosa ha dettato la scelta del suono e della musica nel film? |
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Questo è un ottimo esempio di un film in cui mi sono concentrato molto sul suono. Alcune scene sono basate sulla mancanza di suono. Su un silenzio fatto di ogni minimo scricchiolio. Nella scena girata all’interno della casa dell’assassino volevo che si creasse una specie di “battito cardiaco” dell’abitazione stessa. Il suono è una componente invisibile ma fondamentale. Nelle scene che riproducono l’al di là i suoni infatti sono diversi da quelli della sfera della realtà. È una delle mie armi segrete del film. Per la musica volevo creare una colonna sonora con una decina di pezzi degli anni ’70. Inizialmente abbiamo contattato Brian Eno con l’idea di affidargliene alcuni ma poi lui ha mostrato grande interesse verso il progetto, ha letto il libro e ci ha proposto una sua collaborazione sull’intera colonna sonora. È stata casuale ma si è rivelata una collaborazione molto fruttuosa. |
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Quanto è importante far credere il pubblico in un mondo immaginario e quanto ci crede lei? |
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In qualsiasi film che abbia elementi fantastici è fondamentale che sembrino veri per non far scaturire ironia. Quando si chiede al pubblico di credere in tutto quello che viene raccontato è come se si facesse una specie di contratto tra lo spettatore e il regista e per due ore bisogna credere che tutto quello che si vede sia reale, per questo motivo cerco di filmare tutto cercando di renderlo nella maniera più vera possibile. |
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