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Più che una collezione di domande e risposte, un vero e proprio percorso nella carriera di Scorsese: filo conduttore, il suo rapporto col lavoro, dagli esordi a The Aviator. |
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Come nasce il suo interesse per il cinema? |
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Non è un interesse universitario: là sembrava che esistesse soltanto Bergman: è bravo, ma non è l’unico. Da ragazzo ero commosso dai primi film di Godard, segnato dall’influenza di Resnais; ci sono delle inquadrature di Truffaut che mi porterò dentro per sempre, che replico, senza sapere perché, in ogni mio film. Ammiro inoltre l’ampio respiro di Visconti, mi affascina l’impostazione grandiosa di Cecil De Mille e King Vidor: non ho imitato, ma mi sono sforzato di farmi influenzare da questi grandi registi. |
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Cosa pensa del cinema italiano? |
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Il cinema italiano è stato ed è tuttora fondamentale per la mia formazione di regista. Fa parte della mia linfa vitale, mi ha ispirato in tutti questi anni e lo sento molto vicino, forse anche a causa delle mie origini italiane. Con Francesco Rosi abbiamo cercato di mettere in moto delle collaborazioni ma, a causa dei miei impegni, è molto difficile trovare il tempo. Mi piacerebbe anche fare qualcosa con Giuseppe Tornatore, qualcosa sulla Sicilia. Avrei voluto incontrare personalmente anche Visconti, Pasolini, Germi ma li conosco soltanto attraverso il loro lavoro. |
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Cos’è il cinema, dal punto di vista dello spetatore? |
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Il cinema è un’evasione, ci si trova a dare un’interpretazione della vita, un’interpretazione idealistica; inoltre, permette d essere interpretato: con il cinema puoi aprire un dialogo, stimolare nuove idee. |
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E da quello del regista? |
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In realtà io non so nulla di tecnica: nche quando giro so che nella cinepresa sta succedendo qualcosa, ma non so cosa. <…> Il mio interesse è creare storie che esulino da qualsiasi forma di razionalizzazione. Adesso si usa molto la regola di strutturare la sceneggiatura dividendola in tre atti, che è proprio del teatro classico dell’800: perché usare per forza questi parametri? Il cinema può giocare col tempo, con lo spazio: è naturale che abbia un linguaggio proprio. |
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Dove confinano finzione e realtà? |
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Nel mio cinema la realtà sono le strade. Ho passato la maggior parte della mia vita nelle strade di New York: la strada è realismo. Nei miei film, le strade sono protagoniste quanto e più dei personaggi. |
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Con quali criteri seleziona le colonne sonore dei suoi film? |
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La musica funge da commento, ma non solo: è una vera e propria fonte di idee per le immagini stesse. <…> Alcune scene le ho prima pensate sulla musica, poi le ho girate, utilizzandola spesso anche durante le riprese. |
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Cos’è cambiato nel suo modo di fare cinema, col successo? |
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Sicuramente ho più opportunità, ma non libertà; non è vero che un autore affermato abbia il massimo della libertà, anzi: ti ritrovo a poco a poco costretto nelle catene della logica del guadagno. |
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Qual è il suo rapporto con il cinema, adesso? |
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Quando uno lavora nel cinema non ha più il tempo di vederlo. Eppure il mio rapporto è intensissimo: sto cercando di realizzare la creazione di un archivio del cinema. Ho comprato a mie spese delle copie di alcuni film che mi hanno influenzato o che semplicemente ho amato. Per avere il denaro necessario, volte devo girare delle pubblicità... Comunque, queste copie le consegno a due musei, il Museum of Modern Art e la George Eastman House: l’intenzione non è quella di proiettare questi film a fini commerciali, ma di utilizzarli per scopi educativi, per ispirare nuovi scrittori, attori, registi. Purtroppo mi manca uno dei pilastri portanti di tutto questo discorso, il cinema italiano: vorrei che un ragazzo potesse vedere anche negli Stati Uniti Accattone, Rocco e i suoi fratelli o Il sorpasso; invece in Italia, forse perché non so con chi parlare, non riesco a comprare copie. |
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In Italia, come in America, Gangs of New York è stato vietato ai minori di 14 anni. |
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Si tratta di scelte: io penso che scegliere di non far vedere la violenza sia ipocrisia, considerando che è parte integrante di noi. |
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Da cosa nasce questa violenza? |
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Spesso è provocata dalla paura dell'ignoto, di una cultura che non conosciamo. Quando non si possiede un bagaglio culturale si ha paura delle diverse culture. Leggere, allargare i propri orizzonti serve a prevenire anche la violenza. |
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La nostra società si rispecchia nella violenza? O in cosa? |
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Credo che una metafora della nostra società possa essere Casinò, che presenta Las Vegas per quello che è diventata: una società nella quale lo spirito sta morendo, governata dal materialismo spinto a tal punto da avere perduto ogni logica che che non sia accumulazione di beni. Più soldi si hanno, più se ne vogliono. Ho voluto portare sullo schermo questa corsa sfrenata verso i soldi e il potere, che è come il gioco d’azzardo: prima o poi ti uccide. |
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Lei ha lavorato molte volte con De Niro. Su cosa si basa il vostro rapporto? |
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Io e Bob siamo cresciuti insieme. Abbiamo lavorato molto insieme perché lui è sempre stato attratto dai miei personaggi. Questo per me è stato un indubbio vantaggio, mi ha permesso di trovare i finanziamenti per realizzare i miei film più facilmente. Comunque, alla base della nostra collaborazione, v’è prima d’ogni altra cosa fiducia. |
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Perché è tornato di moda il genere biografico? |
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Perché si è capito che le biografie non raccontano solo la vita di una persona, ma vanno molto più in profondo: studiare la vita di alcuni personaggi significa studiare le cause degli eventi storici. |
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Come si prepara un film biografico? |
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Il problema è trovare il nucleo portante di una biografia: per me la molla è scattata quando ho letto la sceneggiatura di John Logan che, della ricchissima vita di Howard Hughes, si era concentrato soltanto su un paio di aspetti. Al pubblico sono sufficienti pochi dettagli per capire la vita di una persona. |
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Cosa vi ha particolarmente affascinato del personaggi di Howard Hughes? |
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Ho sempre conosciuto Hughes come un anziano eccentrico, che viveva come un recluso in un hotel di Las Vegas: non sapevo tutto quello che aveva fatto da giovane, i traguardi che aveva raggiunto, come fosse stato un vero e proprio pioniere. Nella sceneggiatura emerge questa figura forte di un giovane con capacità straordinarie ma che, allo stesso tempo, cova già in sé i segni di quella malattia che l’accompagnerà fino alla morte. |
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Il film è anche un simbolo del sogno americano? |
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Hughes riesce a realizzare ogni suo sogno fino a diventare potentissimo, finendo però con l’autodistruggersi. Credo che questo valga per tutti gli uomini di potere, sia una rappresentazione della società stessa, non solo del sogno americano; a me ricorda il mito di Icaro, che arriva tanto vicino al sole da precipitare perché gli si sciolgono le ali. |
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